Ýëåêòðîííàÿ áèáëèîòåêà
Ôîðóì - Çäîðîâûé îáðàç æèçíè
Àêóïóíêòóðà, Àþðâåäà Àðîìàòåðàïèÿ è ýôèðíûå ìàñëà,
Êîíñóëüòàöèè ñïåöèàëèñòîâ:
Ðýéêè; Ãîìåîïàòèÿ; Íàðîäíàÿ ìåäèöèíà; Éîãà; Ëåêàðñòâåííûå òðàâû; Íåòðàäèöèîííàÿ ìåäèöèíà; Äûõàòåëüíûå ïðàêòèêè; Ãîðîñêîï; Ïðàâèëüíîå ïèòàíèå Ýçîòåðèêà


Capitolo Primo
Niccol? Machiavelli

Sceso il ponte, il pellegrino cammin? per gran parte della via chiamata dei Guicciardini: gi? era prossimo alla fine del suo pellegrinaggio, quando gli parve vedere, e vide certo, una figura immobile davanti alla casa dell’amico. Si fa pi? appresso, pi? appresso ancora: quelle forme non gli sembravano ignote; esita nel ravvisarle, le ravvisa, e con tale una voce che svelava una piena immensa di affetto, una speranza adempita, forte sclam?: “Buondelmonti!”

Lo sconosciuto anch’egli, quasi desto per forza, balzava indietro gridando: “Alamanni!”

E l’uno nelle braccia dell’altro precipitava e sentiva sopra il suo cuore palpitare il cuore dell’amico col palpito pi? generoso che mai fosse concesso ai nati della creta. “E gi? tardammo anche troppo”, – soggiunse Luigi Alamanni; e cos? favellando[2] prese pel braccio il Buondelmonti e salirono. Non incontrarono nessuno n? udivano muovere passo o articolare parola: una lampada appesa alla volta della sala ardeva solitaria e prossima a morire. Percossi dallo insolito silenzio, si avvolgono per lunga serie di stanze prive di lume; alla fine giungono in parte dove vedono scaturire una striscia di luce; si accostano all’uscio ed aprono.

Niccol? Machiavelli giace[3] vicino all’ultima sua ora. Ora solenne nella quale l’anima, non bene uscita dalla spoglia mortale n? ancora volata alle dimore celesti, sembra soffermarsi sopra la soglia dello infinito, esitante tra le gioie promesse e gli effetti goduti; colloquio misterioso fra il Creatore e la creatura che nessuna mente possa comprendere, nessuna lingua descrivere, forse di amore, forse di rabbia, ma certamente pieno d’ineffabile amarezza.

Un giovane di vaghe sembianze, genuflesso a canto il letto, si cuopre il volto con la destra abbandonata del moribondo e la bacia e tacito vi sparge sopra largo rivo di pianto: un dolore senza fine amaro si ostina a prorompere[4] urtandogli impetuoso le fauci; la piet? del moribondo stringe il giovane a comprimerlo, s? che si ripiega fremente a spezzargli sul cuore, e il corpo si agita tutto di scossa convulsa. A capo del letto, dalla parte diritta, sta un frate di volto severo, stringe le labbra tra i denti, guarda il moribondo e non fa atto di piet? o d’impazienza; se non che la fronte, con vicenda continua, ora gli si corruga ed ora gli si spiana; come i nuvoli sospinti dalla bufera davanti al disco della luna, tu puoi scorgere i pensieri procellosi che l’attraversano. Appi? del letto occorreva un’altra figura vestita di corazza d’acciaro, con ambedue le mani coperte di manopole di ferro soprammesse al pomo della lunga spada; anche il suo volto rendeva decoroso largo volume di capelli cadenti, le guance rase e le labbra, la fronte purissima, dove avrebbe potuto, come sopra il santuario, deporre un bacio l’angelo della innocenza; e lui stesso sembrava un angelo che i credenti affermano vigilare intorno i letti dei giusti moribondi a respingere gli assalti dello spirito infernale. Lui, onde[5] cara e onorata cadesse la patria tra noi, disposero i cieli ad essere il martire della libert?, l’ultimo dei generosi Italiani. Machiavelli mosse le labbra e favell?:

“Io vi aspettavo: silenzio! Parole ho a dirvi degne che per voi si ascoltino, per me si favellino, n? alla umanit? n? alla patria inutili affatto e per la mia fama necessarie. La natura mi chiama, ed io sto disposto a rispondere. Perch? piangete? Chiamer? anche voi; e poich? la vecchiezza precede la morte, considero la morte piet?; io per? bene devo ringraziarla di questo, che ella non volle chiudermi gli occhi, se prima non avessi contemplato il giorno della risurrezione; adesso s? che mi sento capace davvero d’invocare col cuore il nome di Dio, poich? la mia bocca, sopra la piazza della Signoria, davanti la faccia del cielo, ha gridato: Viva la libert?!… Silenzio! onde il senno dei tempi non vada disperso. Le schiatte umane passano come ombre; se non che, prima di ripararsi sotto il manto di Dio, nelle mani delle schiatte sorvegnenti consegnano la fiaccola della scienza: a guisa del fuoco sacro di Vesta, quantunque ella muti sacerdoti, pure arde sempre e cresce nei secoli n? ormai pi? teme vento di barbarie. Accostatevi e raccogliete le estreme parole, per? che vi aprir? il mio pensiero come se fossi davanti al tribunale dell’Eterno. Voi, giovani, nei quali tutta speranza di salute riposa, restringetevi insieme; voi, Zanobi e Luigi, consigliate i nobili; voi, Dante da Castiglione (e il membruto della lunga barba rossa, sentendosi rammentare, si scosse come destriero al suono della battaglia), adoperatevi fra i popolani; badate a non lasciarvi sedurre dalle antiche rinomanze; a’ casi nuovi convengono uomini nuovi: se anima vive che valga a salvare Firenze, ? certamente quella di Francesco Carducci; a me giova indicarvelo come il nostro palladio: molto mi conforta il pensiero che al nostro scampo basta non perdere, mentre ai nemici bisogna vincere.

A voi, carissimi, affido il mio nome; difendetelo voi; e se da alcuno udiete parola che rechi oltraggio alla mia memoria, pi? generosi di san Pietro, non vogliate negare il vostro maestro: dove il vitupero muova da uomo invidioso, tacete, imperocch? all’odio della mia virt? si aggiungerebbe allora l’odio che nasce dal sentirsi dichiarato iniquo; ma dove comprendiate lui essere ingannato, ditegli animosi in mio nome: Nicol? Machiavelli non insegn? ai ricchi la roba, ai poveri l’onore, a tutti la vita: sappiate volersi un gran cuore per intendere un cuore grande”.

Piangevano tutti. I circostanti, il voto del moribondo adempiendo, si allontanarono dalla stanza; se non che ora l’uno, ora l’altro senza mostrarglisi, gli resero gli uffici estremi, finch?, aggravandosi il male, il giorno appresso 22 giugno 1527, quando pare che la campana pianga la luce scomparsa dal nostro emisfero, spir? la sua grand’anima Nicol? Machiavelli.

Capitolo Terzo
Il papa e l’imperatore

Seduti entrambi, Clemente VII da un lato, Carlo V dall’altro di una lunga tavola coperta di velluto cremesino a frangie d’oro, con le insegne della Chiesa ricamate in oro; e sovr’essa carte e pergamene di ogni maniera, brevi, diplomi e capitoli quivi spiegati, quasi museo e satira delle scambievoli loro insidie, alcuni col suggello di Spagna, alcuni colle armi dell’impero, parte con le palle dei Medici, parte ancora con la immagine di san Pietro che pesca e invano rammenta al superbo pontefice la povert? della chiesa primitiva di Cristo. L’imperatore continuava dicendo:

“La Francia ? giglio fragile, e la mia aquila lo ha gi? sfrondato; se non m’ingannava un mal genio, tu a quest’ora saresti, o Francesco, uno scudiero nella mia corte imperiale; la mezza luna non tanto scintilla sublime nei cieli che non valga a raggiungerla il volo della mia aquila: leopardo inglese, dacch? lasciasti comprarti le branche, apparecchiati a darmi la tua corona in cambio dei miei ducati; e tu, san Pietro, sappi che la mia testa ? capace di portare ancora… la tiara… Perch? no? Massimiliano imperatore voleva farsi papa…”

“La morte! la morte!” – grid? pi? alto il pontefice negli orecchi all’imperatore.

“La morte! ” – proruppe Carlo V, – “che fa a me la morte? I codardi soccombono a questo pensiero, gli animosi lo portano come una corona di fiori. ? meglio lasciare l’opera interrotta che non incominciata… I monumenti pi? grandi che il mondo conosca si devono al pensiero della morte – parlo delle Piramidi. La morte sta nelle mani di Dio, l’uso della vita in quelle dell’uomo. La mia anima abbisogna che la testa del suo corpo si posi nella vecchia Europa, il tronco in Africa e in Asia, i piedi in America. Io non anche percorsi la curva ascendente della mia vita, non giungo ancora a trent’anni; e se in questo punto mi toccasse la morte, come Cesare Augusto potrei domandare ai miei amici, ai miei nemici, a voi stessi: parvi ch’io abbia ben sostenuta la mia parte nel mondo? Le imprese da me fino a questo punto operate, se non possono la mia fama a quella di Alessandro Magno anteporre, bastano ad avvilupparmi in un sudario che mi salvi dal verme dell’oblio. Se adesso io morissi, il cuore mi assicura che gli uomini direbbero: meritava vivere di pi?. Papa Clemente, se voi moriste adesso, che cosa pensate il mondo fosse per dire di voi? Lui ? vissuto troppo poco, o ? vissuto anche troppo?”

Clemente tacque. Guardato prima con molta diligenza un taccuino che si cav? dal seno di sotto alla mezzetta, rispose:

“Pi? nulla”.

“A quando l’incoronamento?”

“I vostri ufficiali di cerimonie possono concertarne il tempo e le forme col maestro del sacro palazzo”.

“Addio, dunque, Beatissimo Padre”.

E Carlo disparve, le porte si chiusero, Clemente si trov? solo nella stanza. Allora, declinato il capo sul camino, medit? per lunghissima ora: all’improvviso si muove e si pone davanti alla sedia che occup? l’imperatore durante il colloquio:

“Carlo d’Austria!” – cominci? a dire alzando il dito e comprimendolo sopra l’angolo della tempia destra, “le libert? dei comuni di Spagna, i privilegi delle citt? dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per divorarli; bada, Maest?, il tarlo rodendo si scava la tomba. La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il tuo spirito tramonta. Maest?, tu mi hai supplicato per ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei venuto in capo al mondo per offrirtela; prostrati, Maest?, umiliati, Perch? mi tarda importi questa corona sul capo; io la circonder? di punte invisibili e angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti adatter? la corona sul capo come il collare al collo dello schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana! Affrettati a prostrarti, Maest?: io m’innalzer? tanto, quanto tu l’abbasserai; e allorch?, Maest?, avrai baciato la polvere dei miei calzari, ti travaglierai indarno per dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua vilt? e in processo di tempo se vorrai abbattere l’idolo che tu stesso avrai fatto grande, o non ci riuscirai, o rimarrai infranto sotto la rovina di quello”.

Capitolo Quarto
La incoronazione

Finalmente il santo padre cinse a Carlo le chiome della corona imperiale. Carlo allora, giusta le formalit?, si prostrava curvandosi al bacio dei piedi santi. Era per? convenuto che il papa non gli lascerebbe compiere l’atto, e rilevatolo a mezzo, lo avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da rinnovare tale ossequio; e poi, Clemente lo aveva gi? detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato l’impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette lunga pezza nell’attitudine dello schiavo: in quel punto la corona gli pes? sul capo come se fosse stata una montagna; allora gli parve che il mondo, poc’anzi da lui sorretto nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: come il serpente della Scrittura, lui si nudr? di cenere e la sent? amara, senza misura amara; sicch? il suo cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla rabbia, still? una goccia di sudore, la quale, come quella dell’anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di filosofia, secondo che racconta frate Jacopo Passavanti[6] nello Specchio della vera penitenza, avrebbe avuto virt? di traforare da una parte all’altra con insanabile piaga i piedi del pontefice, se per avventura ci fosse caduta sopra.

Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di baccante scapigliata; Perch? nessuna scintilla d’intelletto gli balenasse su l’anima, qui ? pane, qui copia di vino, camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l’aquila imperiale; la quale da uno de’ suoi becchi versava vino rosso, dall’altro vino bianco, e gi? intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicch? l’Alamanni[7] a questo spettacolo ebbe a dire: Ecco l’aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidit?.

Ahi! popolo, io che ho viscere di umanit? e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l’orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni.

Dalle finestre, dai terrazzi lui ordina che ti siano gettati pane e carne. Potessi cibarti per un anno e approvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l’assedio, saresti meno infelice; ma domani l’insolito cibo ti recher? molestia, forse anche la morte. Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travagliati da mattina a sera, e l’opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti copre e il sole che ti scalda… o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporci dentro le tue ossa, perch? non le rodano i cani, ed ancora perch? morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia.

Capitolo Quinto
Papa Clemente VII

Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza pi? riposta del suo palazzo: essa[8] era di forma ottagona con bellissime colonne di ordine ionico. Da quattro lati ci fanno capo altrettante porte di rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell’arte cos? comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati di quadri rappresentanti martiri di santi, membra segate, capi fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza, ribrezzo; intorno all’architrave superiore si innalza una parete che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco. Il servo andasse ad aprire la porta, dicendo:

“Ecco gli oratori fiorentini.”

Si apersero le porte, e comparvero Nicol? Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Firenze. Giunti appena che furono al Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e con i gesti favellava:

“Alzatevi, messere Nicol? e voi messere Andreuolo; su via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L’imperatore ha da curvarsi al cospetto nostro e baciarci i piedi: voi poi siete parenti, amici, tutti figli della medesima madre. Messere Nicol?, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite, parliamo di Firenze nostra in famiglia. A quale stato la povera citt? si trova condotta adesso?”

“Dentro”, – rispose severo messere Nicol?, – “non si patisce difetto di animo n? di vettovaglia n? d’armi: i barbari fuori, raccolti ai nostri danni, tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli uccidono o sperdono. Tanta e s? grande ingiuria appena potrebbe cagionare il terremoto; pi? poca ne far? il giorno finale; dappertutto seminano il deserto…”

“O Firenze mia, dove ti porteranno questi sconsigliati? Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla dalla rovina. Accordiamoci a cacciare via i barbari che la divorano… queste immani bestie tedesche, che dalla voce e dall’aspetto non hanno niente di umano, come scriveva la buona anima del nostro messere Nicol?....”

“Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito nostro contristato”, – riprese a dire il Capponi, —“l’intendere la buona mente della Santit? Vostra verso la patria comune… vostra[9] madre e mia. Brevi i patti della pace e consentanei al giusto. La libert? si conservi, si restituisca il dominio, del presente reggimento nulla s’innuovi”.

“Libert?!” – interruppe il Pontefice a mano a mano infervorandosi nel dire: “e parvi libert? questa dove senza ragione parte dei cittadini s’imprigionano, molti pi? si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte? Vi sembrano modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il nostro a Careggi, proporre di spianare l’altro a Firenze e farci una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Ditemi si ? onesto e ordinato quando nella citt? i pi? tristie senza pena penetrano nei tempi di Dio, le immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa Cosimino? Non parliamo di questo. Or via, nobili uomini, alsoltatemi: io voglio avere un reggimento Firenze dove, senza offendere la libert?, uno della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come principale cittadino, voi altri ottimati della citt? gli componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche bisogne. Poich? le fortune e la virt? di per s? stesse distinguono l’uomo e il cittadino della povert? e dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce necessit? di natura”.

“I padri nostri si legarono una volta, combatterono i grandi e li vinsero: adesso noi, degeneri dalla virt? paterna, vorremo al nostro posto istituirci grandi e porre nella nostra terra il mal germe di prossima discordia?…”

Clemente soprastette alquanto prima di rispondere, imperciocch? vedeva ogni arte riuscirgli meno; finalmente, tenendo la faccia dimessa a terra favell?:

“Rimettetevi dunque nelle mie braccia: io mi comporter? con voi non come sudditi ribelli, ma come figliuoli[10] traviati.”

Iacopo Guicciardini, sentendosi divampare il sangue, l’ira prorompergli dai precordi, grid?: “Sudditi ribelli! Alla croce di Dio, da quando in qua siete voi re di Firenze, Giulio dei Medici? Cristo solo governa come principe la nostra citt?.... Aprite, Giulio, l’animo vostro intero. Ormai non ingannate nessuno, n? uomini n? santi. Voi intendete assoluto signore dominare su Firenze. Voi vorreste che le nostre teste siano scalini per salire sul trono e quindi le prime ad essere calpestate. Portiamo via, liberi uomini, da questa reggia, che non ci subisse sul capo, dacch? l’ira di Dio ci gravita sopra. Fin qui le preghiere e gli scongiuri furono carit? patria, adesso sarebbero turpitudine e miseria. Il David del Buonarotti si mover? prima a difendervi che il cuore di questo Filisteo si ammolisca. Venite a giurare nella chiesa di Santa Maria del Fiore di liberare la patria o seppellirci sotto le rovine di lei”. E concitato lo sdegno, da dolore e da impeto inestimabile, pone la mano sul battente della porta per uscire.

“Iacopo, fermatevi”, – esclam? il Papa, —“e udite le mie ultime parole. Siano i Medici per autorit? nello stato vostri compagni non principi; componete di quarantotto famiglie un senato, e in quello risieda il potere di governare…”

“Se il mio antico genitore mi avesse proposto questa infamia e delitto, io farei che la scure del carnefice insanguinasse i suoi capelli bianchi”. E senz’altre parole aggiungere gli oratori uscivano della sala.

Capitolo Sesto
Lucrezia Mazzanti

Questa avventura succedeva la notte prima dentro un corpo di guardia accanto alla porta di San Nicol?, unica tra le tante porte di Firenze che tuttavia si mantenga nella sua antica forma. Un solo lume sospeso alla volta rischiarava di splendore vermiglio piccola parte della vasta stanza: e tu vedevi dei soldati raccolti l?, qualcuno disteso per le panche in atto di dormire, altri seduti novellare dei casi di guerra; molti altri bevevano spensierati, come uomini per cui il tempo scorso ? nulla, il futuro anche meno, e si godono il presente fugace – e lieto, perch? vuoto di affanno.

Uno fra loro, di volto leggiadro, giovanissimo, stava appoggiato con le spalle alla parete, la faccia china, immerso in pensieri i quali, come sembrava, non dovevano essere buoni n? tristi: questo era Lodovico Machiavelli. Lupo invece sedeva con le pugna strette, fortemente puntellate nelle guance sotto gli zigomi; gli occhi socchiusi: a volte prorompe dal petto profondi sospiri. Guizzando intanto la fiamma sanguigna sopra quei volti, per tutta la scena, presentava un quadro fantastico, stupenda materia ai dipinti di Gherardo delle Notti o del Rembrandt.

Adesso, mentre i soldati del corpo di guardia staccavano le partigiane dalla parete per accorrere in aiuto, spalancato fragorosamente le porte, balza in mezzo della stanza una femmina, come palla briccolata dalla bombarda, la quale, corsi allo indietro tre o quattro passi, quasi compiendo l’urto di spinta impressa contro di lei, and? a percuotere supina il capo nella parete.

Indifferenti a questo, i soldati uscirono dal corpo di guardia; rimasero Lodovico e Lupo per ragione di ufficio ed anche per vaghezza di soccorrere la misera donna. Le si accostarono pertanto e, rilevandola, la trovarono giovanissima, bella e di gentile aspetto: le sue vesti apparivano schiette, quali costumano le donzelle di contado, se non che fatte di panni pi? fini e con sottile lavorio ricamate di passamani e nastri di seta. Sul suo viso delicato si vedevano i segni di patimenti sofferti, certo a lei pi? gravosi quanto pi? nuovi: pallida era ed aveva bianche le labbra, gli occhi chiusi come se fosse morta. Alla fine trasse un gran gemito, e lo splendore degli occhi si manifest?. Li volse esterrefatta d’intorno, e la prima parola che uscisse dalle sue labbra fu:

“O padre mio! Dov’? mio padre?” E chiuse gli occhi di nuovo.

Vico la seguitando veloce, la trattiene; e confortandola con dolci parole, le dice:

“Non temete; il padre vostro ritroveremo; vi ricondurremo alle vostre case… ai vostri parenti…”

Qui lo interrompe un alto riso della fanciulla:

“Vuoi rendermi la casa! Oh! rendimela via, e con essa[11] la mia cameretta linda, pelita, col soffitto tinto d’azzurro, e il letticciolo con le coperte di rascia rossa e il bel capoletto di Sicilia: rendimi la immagine della Madonna dell’Impruneta di Luca della Robbia e la lampada e il vaso dove ogni giorno mutava fiori freschi di mia mano colti nel giardino… Ma come farai a rendermela, se quando ne uscii, il pavimento, le pareti, il soffitto tutta andava in fiamme?… Mi vuoi gettare tra il fuoco? In che peccai? Questa ? la stanza dei dannati, ed io non ho fatto male a nessuno nel mondo. Io sono innocente, io! Tu mi hai parlato di madre: portami a vederla, e ti dir? fratello, perocch? io sappia ogni creatura nascere da una madre ed essere amata da lei sopra ogni cosa: ma io, sai? Non ho conosciuta la mia… nessuno ha risposto allorch? domandai: siete mia madre voi? ed io fin qui ho dubitato di essere venuta al mondo senza. Ben ho padre e amatissimo. Almeno lo avevo un’ora fa; ora poi non so pi? se io lo abbia. Adesso poi che madonna Lucrezia ? morta. Oh! le sventure vengono sempre e troppo accompagnate. Questa magnanima donna, di cui vi narrer? il pietosissimo caso, che aveva di qualche anno condotto a marito Iacopo Palmieri da Firenze, abitava in villa poco lontana dalla casa che fu nostra nel popolo di Dudda: lei era un esempio di domestica virt?; per santit? di costumi venerata, dai poverelli per la sua beneficenza benedetta, a ragione della donnesca sua leggiadria a quanti la conoscevano gradita, discreta, ben parlante, amorevole. A lei dunque mi voltai interrogandola dove fosse mio padre: e lei mi ha detto di stare in luogo sicuro; non dubitassi; lo avrei rivisto un giorno, sotto cielo meno inclemente, circondato da creature pi? buone. Queste parole non mi confortavano per niente; ricordai lo scoppio dell’archibugio, il padre scomparso, e stemperandomi in pianto, pi? e pi? sempre invocava il mio povero padre. Le compagne, non sapendo come consolarmi, dolenti anche loro per uguali sventure, piansero al mio pianto, ai miei gridi gridarono. Sola madonna Lucrezia, trattenute le lacrime, non facendo atto che apparisse vile, con soavi parole ci conforta, in mille modi diversi s’ingegna raumiliarci: “Il pianto, ci dice, pu? solamente aggravare i colpi di fortuna; abbiamo coraggio per i casi con i quali il Signore intender? provarci; ricordiamoci le donne che con rischio della vita avevano pigliato in mano la difesa della patria e che non dovevano piangere; a nemico superbo opponiamo tutte le nostre forze; un giorno anche loro scontrerebbero amare queste esultanze nefande; a Dio volgiamo il cuore rassegnato e contrito; alla Madre Santissima ci raccomandiamo; viviamo le nostre vite con onore; se no, scegliaimo la morte, e il cielo si aprire a raccogliere la nostra anima cantando le glorie dei martiri.” Cos? accesa nel volto con occhi lucenti favellava la santissima donna, quando, schiusa la porta, apparve tra noi l’abborrito ordinatore della morte di mio padre. Le compagne si strinsero attorno a me, come colombe paurose del nibbio; io lo guardavo fisso e sentivo ribollirmi nel cuore orribile sete di sangue, sicch? se avessi in mano daga o archibugio e avessi saputo come si uccide un uomo, lo avrei trucidato di certo. Quel uomo, che seppi tenere grado di capitano, e chiamarsi Giovambattista da Recanati, si restrinse a colloquio con Madonna; procedevano da prima le sue parole dimesse, la persona piegava in atto di ossequio, poi divent? a mano a mano, concitato nel dire, gli occhi gli avvamparono ardenti. Madonna rispondeva raro, come schermendosi da molesta domanda, e noi la vedevamo a volte impallidire, a volte arrossire a guisa di persona posta al tormento. All’improvviso quel triste proruppe: “Fin qui pregai. Ora sappiate che io posso volere e voglio…” Lucrezia lo supplicava tacesse, il luogo considerasse e le persone; ma l’altro non udiva ed ambe le braccia distese per afferrarla. In quello estremo la donna gli strappa la daga dal fianco e, alquanto indietreggiando, gliel’appunta alla gola gridando: “Scostati, o sei morto.” Declinando il giorno, comparve il capitano Recanati in compagnia di alquanti suoi scherani, e con loro noi tutti uscimmo. Lucrezia volse i passi frettolosi alle sponde dell’Arno. Talora si ferma, guardando il cielo e la terra: e poich? il cielo appariva divinamente sereno e la terra lieta di verdi piante… Volgendosi a noi ci disse: “L’ultima ora di un giorno e di una vita ? compiuta; pregate per un’anima che sta per passare.” Il senso di quelle parole non ci era chiaro, pure pregammo con ardentissimi voti. Cosa stupenda e a me medesima, dove non l’avessi con i propri miei occhi contemplata, incredibile. I masnadieri e il capitano, i quali ci vigilavano da vicino, commossi dallo spettacolo di amore e di fede, loro malgrado si prostrarono anche loro, sforzandosi richiamare sulle labbra l’orazione nei primi anni della vita imparata dalla pia genitrice. Noi donne stavamo sopra il ciglione dell’argine; menava sotto vertiginose le acque l’Arno grosso per le pioggie cadute nei giorni precedenti. Madonna Lucrezia si leva: aveva nel volto gran parte di cielo; il crepuscolo dorato lo vestiva di luce serafica: ci guard? mesta, non abbattuta; secura non baldanzosa; e aprendo la bocca favell?: Figliuole mie, che voi sceglieste piuttosto la morte con onore che la vita con vergogna, stamani con parole io v’insegnavo; guardate, adesso ve lo confermo con l’esempio. Ah! il pianto mi toglie possibilit? di raccontarvi partitamente come ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume: come vedessimo ora apparire sulle acque, ora scomparire sotto, la santissima donna; e tanta era in lei la voglia di preporre l’onest? alla vita che quante volte l’impeto dei vortici la respinse su a galla, altrettante ella mettendosi le mani sul capo si attuffava gi? nel fondo. Una voce lontana penetr? nel corpo di guardia, che chiamava:

“Lena! Annalena!”

“Silenzio!”

“Lena!”

“Ah! padre, padre, padre!…”

E tutti uscirono dalla porta a gola spiegata gridando:

“Qua. Da questa parte. Venite oltre. Qui ? vostra figlia”. Cessa la voce, s’intendono passi precipitati; arriva un vecchio ansante, si slancia con giovanile leggierezza fra le braccia della vergine, ella di lui; e piangendo, mormorando parole slegate, alternando baci e carezze, godono piena la gioia umana, la cessazione del dolore!

Alcuno dei circostanti piegava altrove il volto, vergognando mostrarlo lacrimoso; Lupo rideva, non capiva in s? dalla contentezza. Poich? si furono alquanto rimesse quelle calde dimostranze di affetto, il vecchio con labbra ridenti e cuore devoto diceva grazie agli ospiti della figlia.

“Oh! – rispondeva Lupo – qui non ci capiscono grazie; noi non abbiamo fatto altro che dirle buone parole… e queste costano tanto poco, e tante ne sprechiamo invano e per male che davvero non meritano pregio le pochissime proferite per bene. Io ve l’ho conservata, come padre; e sebbene la presenza vostra mi tolga la dolcezza di questo nome, siate ben venuto, buon uomo. Se per? non vi offendesse la proposta, e voi voleste accoglierla con quell’animo col quale ve la offeriamo noi, starebbe a voi renderci gli uomini pi? lieti di questa terra (perdonate il rozzo dire alla sincerit? delle intenzioni)… accettando parte dei nostri denari…”

“Lupo ci vince in valore, in magnanimit?, in anni, in tutto”, – esclamarono i giovani.

“Per gli anni, sta pur troppo e, mio malgrado, bene; pel rimanente, e nasca quello che sa nascerne, voi mentite per la gola”.

“Gente da bene, la vostra cortesia supera la parola: io ve ne rendo con l’animo quelle grazie che so e posso maggiori. Dal naufragio della fortuna tanto ancora mi avanza da sostentare me e la mia figliuola finch? il nemico duri nelle nostre contrade. Allora spero che Dio vorr? concedermi tanto di vita da restituire in lieto stato le mie terre, rialzare la casa…”

“Amen!” risposero i circostanti.

“Per? tra morire e vivere da schiavo”, – continuava il padre di Annalena, – “la differenza ? questa: i morti non sentono nulla, i vivi si consumano sotto il peso delle catene. Lena mia, ti faccio manifesto il mio testamento alla presenza di questi valenti uomini; dove il leone coronato rimanga insegna della Repubblica, tu vivi, prova gli affetti di sposa, le santissime cure di madre; se le palle trionfano… eccoti… prendi questo coltello… comunque corto sia, pu? sciogliere un’anima dai legami del corpo”.

Capitolo Ottavo
Giovanni Bandino

Poco oltre a mano destra del principe di Orange[12], immobile come pietra, sta Giovanni Bandino; tiene il volto e gli sguardi tesi verso Firenze. Dalla fronte pallida gli piovono grosse gocce di sudore; paiono lacrime piante sopra di lui da occhi invisibili: trema forte e non dice parola. In campo lo spregiavano e temevano; ma lui fuggendo ogni umano consorzio non dava luogo alle offese: quando negli scontri di guerra vedeva i soldati bestialmente inferocire e farsi ciechi per ira, lui, scoperto di ogni arme difensiva, si cacciava l? dove i colpi e gli uomini cadevano pi? spesso. All’assalto di Spelle seguit? impassibile fin sotto il muro gli assalitori; fischiavano le palle intorno al suo capo, rovinarono corpi di uccisi o sconciamente mutilati, e pareva che lui non vedesse e non ascoltasse nulla; quando un colpo di sagro percotendo a mezzo il petto Giovanni da Urbino, tra quanti erano prodi nello esercito, valorosissimo, lo balestr? sfracellato ai suoi piedi, lui allora proruppe in altissime risa e balz? al posto dove rimase ucciso l’infelice guerriero; a tutti sembr? il demonio della strage: non perdonava a cui implorasse quartiere, o a chi resistesse; dal capo alle piante spesso appariva sordidato di sangue del nemico senza che pure una scalfittura ne versasse del suo. Gli Spagnoli, secondo l’indole loro superstiziosi, sospettavano che fosse ciurmato, ma poi, sapendolo uomo del papa si ricredevano, in seguito nel sospetto si confermavano. Dovunque mostra la faccia cessano i colloqui, la gente si apre in due file per lasciarlo passare, assalita da misterioso ribrezzo. Immemore dei circostanti, lunga pezza il Bandino dimor? nello stato di fissazione di che scriveva poc’anzi; all’improvviso, stendendo ambe le braccia, con voce angosciosa prorompe: “O patria mia!”

Quando monsignore di Orange aveva udito quell’esclamazione, pose la mano sopra la spalla sinistra lo interrogando cos?: “E perch? dunque tra i nemici di lei?…”

Si riscuote il Bandino, guata bieco l’Orange e brontolando fugge via a precipizio.

“Ditemi, principe”, – soggiunse poi il Bandino arrestandogli per le redini il cavallo, – “in conto di che mi avete voi?”

“Ma… nel conto che mi avreste me, se io fossi voi”.

“Principe, per favore parlatemi apertamente, in qual concetto mi tenete?”

“Fiorentino movete ai danni di Firenze… di uomo siffatto pu? essere mai dubbiosa la fama?”

“Ah! certo il nome ch’ei merita ? un solo per tutto il mondo”, – favella in suono sconsolato il Bandino lasciando le redini del cavallo…

“Noi altri Italiani c’innamoriamo in chiesa. Rammento il giorno e il luogo in che lei primamente mi comparve dinanzi”, – continua il Bandino senza rispondere alle parole del principe, fisso com’era nel suo pensiero, – “per la festa di san Zanobi in santa Maria del Fiore, l? presso alla parete dov’? sospeso il simulacro del divino poeta, i nostri occhi s’incontrarono insieme; parve che i miei sguardi la infiammassero, Perch? lei si fece accesa nel volto, come le vampe di fuoco le ardessero davanti, e abbass? il velo: poco importa; ormai la sua immagine mi stava incisa nel cuore; dovunque guardassi io la vedevo; e quando lei si part? dalla chiesa, io non rimossi mai gli sguardi dal luogo che lei tenne occupato; gli uffici divini cessarono, tacquero gli organi, spensero le cere, ed io per sempre mi rimanevo immobile credendo tuttavia di vederla. Secondo il costume dei giovani cominciai a passare sovente sotto alle sue finestre; presi dimestichezza con gli artefici vicini per avere onesto motivo di trattenermi nella contrada; nella notte o sul mattino, accompagnandomi sul liuto, le cantai sotto il balcone dolcissimi versi d’amore; praticai insomma quello che costumano le persone quando le scalda il petto l’ardente fuoco della passione e loro non sanno che fare solo che manifestarlo alla donna amata. Con quanta speranza io mi muovevo da casa, e come avvilito ci rientravo! Nessun cenno apparve alle finestre mai; mai vidi sporgere un capo il quale indicasse intendere all’amoroso lamento; io conducevo tristissimi giorni disperato della vita.

Venisse l’istante nel quale la fanciulla, vinto il pudore verginale, mi confessava: “Io ti amo… Io vi giuro, monsignore… in che vi giurer? io? Non conosco pi? nulla di sacro nella terra o nel cielo.”

L’altra notte un famiglio mi conduce verso il palazzo della mia donna. Mi vidi al capezzale il padre della donna, il quale con volto benigno, mi disse: “Attendete a ristorarvi e preparatevi ad ascoltarmi; quello che il cielo vuole forza ? che uomo anche voglia!” Lo rividi verso sera, ed accostatosi quanto pi? presso poteva al mio volto, “Figliuol mio, – cominciava, – poich? umano argomento non vince l’amore che la mia figlia porta per te, e poich? vedo a prova manifesta come anche tu ardentissimamente l’ami, e il contristarvi le nozze sarebbe certa ragione della morte di entrambi, a Dio non piaccia che in questa mia vecchia et? prossimo a rendere conto della mia vita all’Eterno, contro al mio sangue mi renda micidiale. La tua stirpe ? gentile, i tuoi costumi onesti: una sola cosa mi offende in te, e non ? tua colpa, voglio dire il difetto dei beni di fortuna, ci? mi trattenne fin qui dal consentire che tu tolga in moglie la mia figliuola Maria: tu saprai un giorno quanto piaccia al cuore del padre allogare i figliuoli in famiglie pi? potenti della sua e quanto all’opposto rincresca scemare; per? siete giovani entrambi, che tu non mi sembri toccare il diciottesimo anno, e la fanciulla appena ne conta quindici: la fortuna, come donna, ama i giovani; viviamo in tempi nei quali riesce di leggeri, a cui vuole davvero, metter insieme denari; sopra tutte le parti del mondo vedo prosperare i nostri mercadanti in Spagna, fuori di misura doviziosa per l’oro che a lei manda l’India non ha guari scoperte. Io ti prometto la figlia: fidanzatevi, ve lo concedo: poi su questa croce giurami che te ne andrai a procacciare tua ventura in Spagna per tornare presto a condurre donna e statuire famiglia con lo splendore conveniente alla stirpe donde esci e a quella a cui la tua moglie appartiene.” – Promisi e con pieno cuore; – che cosa non avrei promesso? Restituito alla vita, rigoglioso di giovanezza, felice per potere consumare i miei giorni al fianco della donna amata e dirle: “Io ti amo”, e sentirla rispondere: “Ed io pure ti amo”; parole mille volte ripetute e mille volte ascoltate con dolcezza ineffabile… miracolo nuovo di amore!

La fortuna, per flagellarmi meglio, spir? un fiato favorevole nelle vele; partii, giunsi e arrivai a Cadice e a Siviglia, dove impresi traffici smisurati: nei traffici rovina agli altri, io crescevo; i pazzi consigli miei riuscivano meglio dei savi provvedimenti altrui; apparvi oracolo, e fui soltanto avventuroso; la turba m’invidiava, mi applaudiva e adulava.

Due anni passati, torn? a Firenze. E come forte mi trem? il cuore quando prima scopersi da lontano la cupola della basilica nostra! se avessi avuto le ali non mi sarebbe sembrato di affrettarmi a mia voglia: pur giungo e difilato mi avvio alla casa paterna; la mano mi manca per bussare alla porta, altri bussano per me, si apre, chi mi apriva non guardo, corro, corro in traccia di mio padre; la casa ? vuota!.... Rifaccio i passi, e vedo il vecchio genitore genuflesso davanti un Crocifisso, e ascolto tra i singhiozzi pregare riposo all’anima mia.... “Sono io morto, perch? mi diciate il requiem?” – esclam? maravigliato; e il padre piange e pi? che mai si raccomanda: mi accosto, ei trema e non ardisce guardarmi. “Anima benedetta, lui diceva con stupenda prestezza, anima benedetta, va in pace, io spender? in suffragarti l’ultima mia masserizia… Va in pace”. Tornate le persuasioni invano, mi vinse lo sdegno, mi dolsi del modo col quale mi accoglieva, minacciai andarmene tanto lontano che mai pi? avrebbe riveduto la mia faccia, di poco amore lo rampognai. Lui sorse allora tra stupido e spaventato, e: “Tu vivi?” – mi domanda con parole interrotte… Mi tocca… mi bacia… e quando il suo dubbio fu tutto spento, crudeli! crudeli! esclama e mi cade semivivo tra le braccia. Qual io rimanessi non saprei raccontarvi con discorso convenevole.

Lui rivenne tosto, e io ansiosamente gli domandai: “Chi ? questo, padre? e la donna mia?” – “La donna tua? Vieni a vedere la tua donna”, – e con impeto giovanile mi trasse fuori di casa.

Giungiamo alle porte di Santa Maria del Fiore; l? incontrammo fanti e donzelle, i quali tenevano per le redini in copia palafreni; entriamo in chiesa, la pi? parte sepolta in profondissima oscurit?; andiamo avanti, e pervenuti al punto della nave dove sospeso alla parete si ammira il simulacro di Dante, coronata con la ghirlanda nuziale, con lo sposo al fianco, blandita da gioconda comitiva, ritorna da legare la sua fede eternalmente ad un uomo dal pi? degli altari una donna, e questa donna ? la mia!… Empii di un grido orribile le volte del santuario e, stretto il pugnale, mi precipitai a trucidare la spergiura; mutati appena due passi, il ghiaccio di un ferro mi penetra nelle viscere, e precipito avvolgendomi nel mio sangue sul pavimento. Non piacque all’inferno ch’io mi morissi: udite stupenda nequizia umana! Aperti gli occhi, mi trovo giacente sopra miserabile pagliericcio, dentro una stanza vuota, le mani e i piedi stretti da funi… non mi rinveniva, cercava con la mente n? giungeva a indovinare in qual luogo mi avessero condotto e perch? cos? legato. All’improvviso mi spaventa uno schiamazzo confuso di minacce, di percosse, di pianto, di preghiere e di risa; e sopra tutte queste voci tempestare un urlo che diceva: “Chiudete le porte, san Pietro!” – “san Paolo, di grazia, a che tenete quello spadone ai fianchi?” – “Ora dov’? andato l’arcangelo Michele?” – “I demoni danno l’assalto al paradiso.... e’ l’hanno preso”, – “l’hanno preso,” – “scomunicati!” – “eretici!” – “cos? bussate il Padre Eterno? poveraccio!” Mi accorsi che mi avevano condotto all’ospedale dei pazzi.

Un giorno corsi dall’ospedale; poich? ebbi corsa lunga ora non pensando a nient’altro che a fuggire, incominciai a divisare dove procurarmi un asilo, come sottrarmi alle persecuzioni dei miei feroci nemici; pericoloso mi parve, ed era, ridurmi alla casa paterna, ma anelando conoscere come il caso avvenisse, col? appunto mi condussi; – oscurit? e silenzio; – chiamo, busso, torno a chiamare, e sempre invano; tolto di speranza da questa parte, il cuore mi augurando sinistramente, ma pur non sapendo qual male temere, mi venne in pensiero il castaldo che abitava certe casette di nostro alla estremit? della via; – lo trovai con la famiglia prostrato a terra, perch? le campane avevano suonato l’ora prima di notte, a recitare il De profundis per le anime dei defunti: siccome inosservato io penetravo l? dentro, udii pregare pace all’anima mia e a quella di mio padre. “Sarebbe lui morto?” esclamai con immenso dolore. Immaginate voi lo spavento prima, poi la meraviglia e la esultanza di quei buoni, – i soli che mi siano occorsi nella vita. Il mio povero padre era morto pur troppo! Alle persecuzioni e all’odio del malvagio, che pei rimorsi riarde pi? feroce, soccombeva i miei nemici con le proprie mani avendomi distrutto, con le proprie mie mani io mi ero deliberato distruggerli; dente per dente, pelle per pelle, come insegna Mois?; presi nella destra il pugnale, nella manca un pugno della terra che l’ossa ricopriva di mio padre e giurai vendicarmi… di vendetta italiana… Aspettate e vedrete come sapr? vendicarla.

“E per colpa di un solo volete sommersa la barca? A parere mio, io vi terrei meno triste, se uccideste i vostri nemici a tradimento. Per odio privato voi condannate a morte l’antica repubblica di Firenze”.

“Che significa repubblica? E’ una parola di largo contorno e che dentro di s? comprende libert? da comizio e tirannide d’inquisitori di stato. Il governo dove impunemente si commettono misfatti quali soffersi io non pu? dirsi libero, e tale invero non fu mai il nostro; e poi io sacrifico volentieri la libert? passaggiera alla forza perenne, madre vera di durevole libert?. Messere, voi pensate avere gettato un germe nel mio cuore, ed lui ha gi? partorito da parecchio tempo il suo frutto; non pertanto grazie vi siano della proposta. Aiutatemi: quello che non fecero i cinque e i dieci anni, lo faranno i venti; le piaghe del vostro cuore saranno sanate; vi confidi il futuro. Voi mio maestro e mio duca dovete vivere, amare e governare”.

“Camminate la vostra via. Non vi trattenete a guardare i miei fati, io vi sovverr? come e dovunque possa, ma non per vivere; se avessi intenzione di durare nella vita, il Bandino non conosce signore degno della sua servit?, tranne uno solo, e questi ? il Bandino”.

Capitolo Nono
Michelangelo Buonarroti

Dante da Castiglione era giunto ai bastioni di San Miniato con mirabile arte condotti per industria del divino Michelangelo. Quantunque il Varchi[13] ci narri nel decimo libro delle sue Storie essere stati biasimati da alcuni perch? fatti con troppi fianchi, le cannoniere troppo spesse, per le quali venivano a indebolirsi, e troppo ancora sottili da non potere reggere l’urto delle grosse artiglierie, nondimeno furono tenuti non solo per questi tempi stupendi, ma in epoca pi? recente meritarono che Vauban, celebrato ingegnere francese, ne levasse la pianta e ne prendesse le misure. Questi bastioni cominciavano fuori della porta San Francesco, e salendo su per il monte circuivano l’orto, il convento e la chiesa di San Miniato; cos? descritto un larghissimo ovato si ricongiungevano alla porta San Francesco. Nell’orto di San Miniato era alzato un fortissimo cavaliere che guardava il Gallo e Giramontino. Ancora poco sotto del convento di San Francesco fu fatto un altro bastione, il quale con le sue cortine scendeva gi? da oriente fino al borgo di Porta San Nicol? e terminava con alcune bombardiere poste sopra Arno: altri bastioni e puntoni e cavalieri costruirono che non importa descrivere, armati di grossi panconi di quercia, ripieni dentro di terra e di stipa, di fuori fasciati con mattoni crudi composti di terra pesta mescolata con capecchio trito.

Non tutte quelle fortificazioni erano condotte a termine nel tempo di cui favelliamo, perocch? mancassero i fossi, le vie coperte e simili altri accessorii; e poich? il nemico stava a fronte, e di giorno in giorno si temeva l’assalto, cos? non smettevano mai il lavorio di giorno o di notte. Dante salendo pel poggio si ferm? un momento a contemplare un numero infinito di fiaccole scorrere di su, di gi?, da tutti i lati, e al chiarore di questi fuochi ammir? il solenne spettacolo di un popolo irrequieto per la propria difesa, pago, per mercede, del contento che l’opera stessa gli somministrava, senza secondi pensieri, senza idea comunque lontanissima di accordo, n? anche per ombra dubbioso di potere perdere la prova, fidente in Dio, fidente nel suo braccio, affatto sublime; popolo vero insomma, non gi? sozza, cupida, ignorante, iattante plebe e codarda; onde sospirando ebbe a dire: “Te felice, o popolo, se non ti fossi mai lasciato soverchiare dai tuoi eguali! Le mani che trattano la zappa meglio delle altre saprebbero reggere lo stato.”

Michelangelo Buonarroti, non vecchio ancora, che di poco oltrepassava il cinquantacinquesimo anno, di membra vigorose e spigliate, con quel suo impeto terribile si vedeva trascorrere veloce da un punto all’altro senza posare un momento; pareva lo spirito agitatore di tutto il popolo raccolto l?; lo avreste detto per quel suo roteare fantastico il genio custode della citt?.

Dante, comunque robustissimo uomo fosse, indarno si affaticava a raggiungerlo; ora se lo vedeva comparire sopra la testa, ora sotto i piedi, or lontano su i lati, sicch? quasi stava per disperarsi. Da qualsivoglia parte Michelangelo si volgesse lasciava utili insegnamenti o esempi buoni o parole che poi diventavano sentenze tra quei popolani innamorati della sua virt?. Giunto presso a certo parapetto non anche condotto a termine, parendogli che troppo tardassero a compierlo:

“O neghittosi!” – favell?, – “non sapete voi che da questo lato domani potrebbe entrare la palla mortale per la nostra amorosissima patria?” E gli operai: “l’uomo fa quello che pu?, maestro, noi non abbiamo mica cento braccia”. “Cento braccia”, – riprende Michelangelo, – “non bastano l? dove basta un sol fermo volere?” E gli operai di nuovo: “Non ci garrite, Michelangelo; noi stiamo dietro a questi altri che pure hanno cominciato il compito quattro ore prima di noi”. “Guai a quello”, – replica tosto il Buonarroti, – “che cerca difesa al proprio fallo nel male operato altrui: chi va dietro ad altri non gli passa mai avanti”. “Con voi maestro non si vince n? s’impatta: tra due ore ve lo daremo finito”. “Oh! questo si chiama parlare; arrivederci fra due ore”.

Di l? balza a un fosso, dove gli scavatori essendo addentrati un braccio pi? della persona nel terreno attendevano a penetrare pi? oltre; la voce di Michelangelo passando gli ammonisce: “Figliuoli, la terra sui poggi ? pi? solla che al piano; badate che smottando non vi seppellisca: ponete due assi lungo le pareti e puntellate con una trave per traverso a contrasto, allora siete sicuri come in casa vostra.” Altrove volgendosi, ecco incontra un gruppo di uomini i quali si sforzano a portare su in cima al poggio una grossissima lastra di pietra; ci sottopongono tutte le mani; poi riunendo i conati tentano di rotolarla ancora una volta; i muscoli delle braccia risaltavano nella maggiore loro tensione, protuberanti le vene delle tempie, gli occhi quasi scoppiati fuori dell’orbita.

Michelangelo si compiacque alquanto nel considerare qesti arditi contorni; vagheggi? quella parte dell’orditura del corpo umano, poi, soddisfatta la voglia di artista, lo prese amore dei male accorti: “Indietro!” – grida, entrando improvviso in mezzo di loro, – “porgetemi dei travicelli; qui, spingeteli qui dentro; ora vi adattate sotto una pietra; notate, quanto pi? il punto di appoggio si accosta al punto di contrasto, maggiore forza acquista la leva: ora da questa parte, uniti insieme, pieghiamo la leva verso terra… su… su… su… ecco voltato il lastrone… continuate in questa maniera, e fra mezz’ora lo avrete posto in cima”. Di l? si stacca, e arriva ai fossi che si scavano sopra altra parte del monte: i manovali barellano la terra e, gettandola lungo i baluardi, s’ingegnano a renderli sempre pi? stabili; un vecchio di bell’apparenza e di sembianza degna di meno umile ufficio, rimasto solo, si sforza di recarsi in capo la barella, e senza aiuto far solo e vecchio quello che gli altri in due e giovani fanno; per? la facolt? non rispondeva al proponimento, sicch? nel volto gli si legge l’ostinazione che manca, e lo sconforto che comincia. Michelangelo gli ? sopra, lo considera alquanto e poi: “Padre”, – gli dice, – “mi pare che voi non siate fatto per cos? basse opere”.

“Bassa opera!” – risponde il vecchio; – “quando torni in utilit? della Repubblica, io non so come la si possa chiamare bassa”. “Ma via, tra zappare, barellare la terra”, – soggiunge il Buonarroti, – “e dettare leggi ci corre a mio parere una certa tal quale differenza”. E il vecchio: “Quando tutti i Romani zappavano, vinsero tutti.” Michelangelo soprastette alquanto pensoso, quindi riprese: “Per? le forze vi mancano… e per troppi anni siete male atto a coteste[14] fatiche”. – “Ah! poco pietoso cittadino, perch? mi fai sentire con le tue parole l’amarezza di non potere giovare meglio alla mia patria? Era pure pi? degno di te, invece di consumare il tempo in vane novelle, stendere le braccia e porgermi aiuto a trasportare la terra”. – “In fede di Dio tu hai ragione.” E qui Michelangelo, presa la barella dalle stanghe di dietro, Perch?, salendo il monte, minore peso sentisse il vecchio, gli dava aiuto a portare.

Michelangelo costretto a procedere a lenti passi, concedeva agio al Castiglione di raggiungerlo, come infatti anelante, bagnato di sudore il raggiunse, e tostoch? gli venne accanto, con voce ansiosa lo chiam?:

“Messere Michelangelo!”

“Che c’?, mio bel garzone?”

E Dante, vie pi? accostandosegli, sommessamente gli dice:

“Il gonfaloniere manda per voi”.

“Ora non posso; bisogna prima che porti questa barella; subito dopo sar? con voi”.

Quando la terra fu scaricata, Michelangelo con amorevole piglio si volse al vecchio cos? interrogandolo:

“Padre, vorreste voi dirmi il vostro nome in cortesia?”

“Nacqui nel contado di Firenze, ho lavorato i suoi campi, ho combattuto le sue battaglie, ho pianto alle sue tribolazioni; il nome nulla aggiunge o toglie alla mia vita: mi chiamo uomo”. E levatasi la barella sopra le spalle, se ne ritornava l? donde si era dipartito.

“Lui”, – esclama Michelangelo accennandolo col dito al Castiglione, – “dev’essere uomo fatto grande dalla sventura o dalla pazzia”.

Era cotesto vecchio il padre di Annalena; se Michelangelo indovinasse giusto, a suo luogo e tempo saprete.

Capitolo Decimo
Fra’ benedetto da Fojano

La innocente vergine dorme supina sopra un lettuccio a canto quello del padre, le mani tiene abbandonate lungo i bei fianchi, le gambe tese, il capo alquanto chino su la spalla destra in dolce atto di quiete. Perch? sorride la vergine? Sogna aver l’ale alle spalle ed abbracciare su i fianchi un angelo ed esserne abbracciata. Sogna un cielo chiaro e sereno dove si avvolgono perpetuamente in moto armonioso miriadi di globi lucenti, e parle che il compagno le dica: Vieni, voliamo a raggiungere cotesta stella col? che sopra tutte le altre scintilla: e volano, volano… l’aria percossa sibila loro dietro le spalle, e la stella ? raggiunta, poi da lontano contemplano un augellino che si affretta cantando, e il compagno riprende: Vieni, voliamo ad interrogare quell’augelletto – e in meno che non balena gli stanno sopra; lui invano raddoppia il batter dell’ale, e l’hanno preso: Dove vai, uccello, ch? tanto ti affretti cantando? – Mi affretto a cibare i miei pennuti, e canto lieto al mio Creatore che mi fece rinvenire l’esca con la quale nutrirli. – Va, va, augelletto; cos? ti sieno preste l’ale al volo e Dio ti preservi dal falco. – Poi il compagno riprese: L’ora della preghiera ? venuta; e cos? dicendo comincia dolcemente un inno al Signore; ella si volse a contemplarlo in viso… – santi del paradiso! Vede le belle sembianze di Vico, le quali, quanto lui pi? s’infervoriva nella preghiera, tanto pi? diventavano luminose, roventi quasi, alfine i suoi occhi come feriti non possono sostenere la vista, ella si desta… e freme… raggio di sole penetrando traverso lo spiraglio della finestra si posava sopra le sue palpebre.

Le diverse bisogne compiute, Annalena si prostra e prega: “Vergine santissima, il primo pensiero della mia anima risvegliandomi era tuo… ora… non pi?… ma tu vorrai perdonarmi… non ti ho supplicato che tu m’ispirassi per conoscere se mal facevo ad amare un ente mortale, come amo te?… e l’angelo custode da parte tua non mi ha dissuaso, anzi lui mi parve mi confortasse ad amarlo. Madre di Dio, ti raccomando il mio povero padre; – la mia genitrice gi? da gran tempo al tuo fianco non abbisogna delle mie preghiere; – e poich? cos? piace al cielo, non meno ti raccomando il mio diletto…” Qui fissa contemplando la immagine, le parve che dal vetro dentro il quale stava custodita mandasse un baleno: volse la faccia, e…

Vico Machiavelli, splendido in vista quanto l’arcangelo Michele, cinto di forbita armatura, le comparve alle spalle; le lucide armi riflettendo nel vetro lo avevano fatto coruscare del baleno che offese la vergine.

Annalena balza in piedi e presta pi? della gazzella si ricovra all’altra estremit? della stanza. Vico con occhi dimessi cominci?:

“Annalena, vi domando perdono; credeva ritrovare qui vostro padre e intendeva menarlo meco[15] alla rassegna della milizia. Dio vi mandi il buon giorno…”

E volgeva la persona in atto di andarsene. La vergine sempre nel suo ricovero con ambe le mani si fregava gli occhi, timorosa non fosse una illusione. Vico pervenuto sul limitare, stupefatto della strana accoglienza, si ferma ed esclama:

“Lena!”

“La vergine trasalisce, e non le riesce snodare la lingua.

“Lena!” ripete Vico e impetuoso si dirige con presti passi verso di lei cos? favellando:

“Tanto vi sono ad un tratto diventato increscioso che voi mi rifiutate quello che onestamente non sapreste negare a qualsivoglia cristiano vi occorresse per via, un saluto di pace? In che vi offesi? I giorni vostri io non turbavî mai. Perch? sorrideste ai miei ritorni, alle partenze sospiraste? Perch?, secondo ch’io mi presentava o lieto o tristo, impallidiste o arrossiste? Erano lusinghe queste? Ed io ti reputavî pura, innocente, come l’alba del primo giorno che spunt? su la terra! Ahi, tristo me! tu mi hai ingannato:… a voi tutte, femmine, Eva don? l’arte di presentare all’uomo la morte sotto la specie di un frutto.”

La giovinetta rimaneva come sbigottita da cotesto linguaggio; la cagione dello sdegno non comprendeva; grosse lacrime le scorrevano lungo le guance; sentiva un immenso duolo opprimerle il cuore pronto a scoppiare: alla fine proruppe e, precipitandosi a terra, abbraccia in atto d’ineffabile angoscia le ginocchia di Vico. Questi a sua posta si smarrisce, le parole gli mancano, sta incerto su quanto dicesse o facesse.

“Oh! non mostrarmiti sdegnato”, favella la vergine: “In che ti offesi? Se non lo sapendo ti recai ingiuria, perdona; io sono semplice, e avvezza agli usi di villa… io non sorger? da terra finch? tu non mi abbi perdonato…”

Ebbro di amore Vico le stende le braccia e esclama:”Sorgi, sorgi; in questo modo atteggiata appena dovresti presentarti al cospetto della Divinit?”.

“E tu, Vico, sei la mia Divinit?…”

“Or dunque mi ami?…” E la solleva esultante.

“Se amore significa sentire la vita soltanto quando io ti veggo ed essere dolente quando mi stai lontano e pregare il cielo che ti conservi; se amore significa fiamma ardente che mi scorre dal capo alle piante allorch? mi comparisci davanti, se udirti in ogni suono.., se in ogni oggetto vederti, se… se… questo significa amore, sopra tutte le cose io t’amo”.

“Mi ami?”

“Oh! tanto!… oh! tanto!…” E palma percoteva a palma.

“Or dunque vieni, prostrati qui davanti la immagine della Vergine; ecco mi prostro anch’io; giurami che tu sarai mia donna”.

“Lo giuro”.

“E che fuggirai gli sponsali di qualsivoglia altro uomo”.

“Lo giuro”.

“E che, morendo io, ti renderai monaca e finch? ti duri la vita continuerai a ripararti nel chiostro”.

“Questo non giuro io”.

“Perch? nol giuri?”

“Perch? la morte mi scioglier? subito dai penosi legami; e per la striscia luminosa che lascer? nel firmamento la tua anima al cielo volando ti seguir? la mia, fedele ancella nella morte, siccome ti fui nella vita”.

“Dio onnipotente, gran merc?!” – esclama Vico, premendo con ambe le sue le mani della donzella: “qual merito avevo io mai onde tu mi compartissi tanta contentezza?”

“Ludovico Machiavelli alla rassegna!” Si ud? gridare una voce forte e unito alla voce un percuotere raddoppiato all’uscio di strada.

“Ah! Il capitano Ferruccio”, – dice Ludovico e, balzato in piedi, lasciando le mani della donzella, precipita fuori della stanza.

Annalena correndogli dietro lo richiama:

“Vico! Vico! anche un istante… una parola.”

“Il capitano Ferruccio”, – rispose Vico e continua ad allontanarsi.

Annalena si fece al balcone e vide il suo diletto il quale, vergognoso in vista, seguiva un uomo d’arme per aspetto e per dovizia di armi notabile. Per? non udendo Vico, siccome aveva temuto, muoversi dal capitano alcuna rampogna, riprese animo e, voltosi di repente, vide la fanciulla al balcone, e studioso di giustificare la subita partita, le mand? una voce sola, e fu questa:

“Libert?!”

La vergine, fatta delle mani croce, e dimessa la testa in atto di rassegnazione, rispose anch’ella con una parola:

“Sia!”

Capitolo Undecimo
Il profeta Pieruccio

Molto tempo innanzi che le cose narrate accadessero, Malatesta Baglioni certa notte, dopo avere dato volta ora sopra un fianco ora su l’altro, non trovando riposo, balz? da letto dicendo: “Ma Cencio perch? tarda tanto a tornare? Se Cencio mi tradisse, se a quest’ora stesse davanti al gonfaloniere dicendogli: Magnifico messere Carduccio, Malatesta vi tradisce… se gi? si movesse il bargello.... se il carnefice.... ah! Chi ? l?? Nessuno. Come dura lunga la notte! Questo Cencio oramai ne sa troppe....”

S’intende lo scalpito lontano di cavallo… si accosta… si ? appressato… scende il cavaliere, entra nel palazzo Serristori, salisce frettoloso le scale.

“Questi ? Cencio; riconosco i suoi passi. Lui ne sa troppe.... ne sa troppe; Cencio potrebbe tradirmi, ? colmo sino alla bocca…, bisogna torcelo dinanzi… mezzo palmo di lama, o tre grani di tossico lo spingeranno tant’oltre da non temerne il ritorno. Cencio… – O Cencio, sii il benvenuto, figliuolo mio, ti aspettava....”

“Davvero? rispose Cencio gittandosi sopra una sedia, dove stir? le braccia e tese le gambe con plebea dimestichezza; – quindi a poco a poco continuava: “Ho sonno, fame e sete.... Malatesta, datemi da bere”.

Il sangue baronale del Baglioni si rimescolava da cima a fondo; un moto delle labbra svel? il cruccio dell’anima, ma potente com’era a simulare ridusse quel moto in sorriso, emp? una tazza di vino e, la porgendo a Cencio, favellava:

“Bevi, Cencio, e confortati.... la tua vita mi preme quanto la mia....”

“Ahim? tristo! sar? io a tempo domani per testare delle cose mie?”

“Ch’? questo, Cencio?”

“Nei tanti anni che facciamo via insieme verso l’inferno mi sono accorto, o Malatesta, che quando vagheggiate oltre il consueto qualche famigliare, voi lo avete gi? in cuor vostro condannato alla morte. Ors?, se mi deste il veleno, ditemelo, ond’io mandi in tempo pel notaro e pel confessore.”

“Lascia il motteggio, Cencio: papa Clemente accettava il trattato?”

“Pi? gli aveste domandato, pi? vi avrebbe promesso; e meno vi manterr?.”

“E la indulgenza, Cencio, l’assoluzione?....”

“Ahi l’assoluzione.... gi? anche questa.... e questa, non dubitate, vi manterr?… non costa nulla…”

Il sole, assai alto, penetrava coi lucidissimi raggi traverso le imposte della stanza del Malatesta, quando uno dei suoi fanti percosse alla porta con molto riguardo. Malatesta, il quale non ben dormiva, ma se ne stava mezzo assorto in cotesto assopimento pi? assai tormentoso della veglia, perch? le cause di terrore ti si mescolano confuse senza seguito nel pensiero, di subito domand? che fosse.

“Magnifico messere, un mazziere della Signoria.”

“Della Signoria! Cencio! o Cencio! odi tu? un mazziere della Signoria....”

“Che ora fa, Malatesta?”

“Un mazziere della Signoria”.

“Buona nuova”.

“Ed io la temo avversa”.

“Avete torto, s’ella fosse avversa, non ve la farebbero notificare per mezzo di mazziere. A gente come siamo noi prima mozzano il capo, fanno poi il processo; animo, su, Malatesta, questa ? una buona nuova”.

“Dio voglia che sia cos?. Avanti il mazziere”.

Entra il mazziere con grave cerimonia, vestito di scarlatto, con la insegna del cuoune sul mantello, e salutato il Malatesta, gli espose con solennit? il suo messaggio.

“Strenuissimo e magnifico messere Malatesta, essendo finita la condotta di don Ercole principe di Ferrara, piacque ai signori Dieci, ragunata la Pratica, mandarvi alle fave per subentrargli nell’ufficio di capitano generale della Reppublica. Essendo stato vinto a favore vostro il partito, il magnifico gonfaloniere mi manda a darvene avviso e a pregarvi di stare pronto a riceverne la investitura questa stessa mattina con le consuete solennit? nella Chiesa di Santa Maria del Fiore”.

“Stamane! appunto stamane! ebbene, andate e riferite ch’io, con le ginocchia della mente chine, ne rendo loro quelle grazie che so e posso maggiori…”

“Addio, messere”.

“Cencio, dov’? la lettera del papa?”

“Qui sopra la tavola; io l’ho ricoperta con la zimarra di velluto”.

“Tu meriti ch’io ti faccia imbalsamare: porgimela; d’ora in poi non mi uscir? di dosso”.

E se la ripose insieme colla borsa nella tasca laterale delle larghe brache alla spagnuola. Io pertanto non esporr? siffatta cerimonia, poich? se mai, o lettore, ti avvenisse visitare Firenze, andando al palazzo Gaddi ti occorrer? dipinta in un bel quadro del Rosselli, o del Pomarancio; solo ti dir? che il gonfaloniere nel consegnare a Malatesta le insegne della sua nuova dignit?, oltre all’avergli pi? volte rammentato la morte acerba di suo padre Giampagolo, concluse:

“Piglia dunque, illustrissimo signore, piglia prodissimo campione ed invittissimo general nostro, con fausto auspicio di te e di noi da me gonfaloniere e da questa inclita Signoria in nome di tutto il magnifico popolo fiorentino, questo stendardo quadrato ricamato di gigli, questo elmetto di argento smaltato medesimamente di gigli, arme del comune di Firenze, e questo scettro di abete cos? rozzo e impulito com’egli ?, in segno, secondo il costume nostra antico, della superiorit? e maggioranza tua sopra tutte le genti, munizioni e fortezze nostre, ricordandoti che in queste insegne quali tu vedi, ? riposta, insieme con la salute e rovina nostra, la fama e la infamia tua sempiterna”.

Malatesta abbracci? quasi commosso le insegne, e tra le pieghe dello stendardo nascose la faccia, sulla quale mand? il pudore il suo ultimo addio. Certamente avrebbe arrossito anche Satana. Poi pieg? le ginocchia per proferire il giuramento solenne dinanzi all’argenteo altare, dove molti capitani avevano giurato prima di lui, come Raimondo da Cortona, Bernardone delle Serre, il conte di Pitigliano ed altri non pochi, nessuno per? con animo deliberato, come il Baglione, di tradire la Repubblica. Ora volle fortuna che, mentre lui si china, gli uscissero dalla tasca, dove le aveva riposte, la borsa e la lettera di papa Clemente. Dove siffatta lettera fosse stata spedita in forma di breve, toccava Malatesta l’ultimo istante di vita: fu sua ventura somma che non vi avessero apposto il suggello del pescatore, o segno altro qualunque il quale dichiarasse la sua origine. Dante da Castiglione, che gli stava vicino, raccolse la lettera e la borsa, e tentato Malatesta nel braccio, gli parl? sommesso:

“Capitano generale, vi ? caduto roba di tasca”.

“Qual roba?”

“Una carta e una borsa”.

“Una carta! Ah! la lettera!” – E tinto del pallore della morte, – “Spero, proseguiva, o messere, che vorrete rispettare il segreto di un foglio capitatovi per questa via nelle mani”.

Cencio, quel suo fedele cos? corrivo a pungerlo di parole, eragli poi legato per la vita con le opere; senza Cencio, Malatesta non avrebbe impreso tanti avviluppati disegni, o senza fallo vi si smarriva dentro. Cencio poteva chiamarsi l’angelo custode del delitto; ed ora vedendo lo imbarazzo dei suo signore, lo soccorse piegandosi all’orecchie del Castiglione per susurrargli con arcano:

“Egli ? concio fino all’osso di male francese, e pur non si rimane dal mantenere commercio con femmine di ogni maniera”.

“Quando anche”, – risponde il Castiglione al Malatesta toccando con la mano destra la lettera, ve la mandasse papa Clemente, conosco troppo gli uffici di gentiluomo per prevalermi nel caso… Prendete, capitano generale…”

Malatesta stendendovi sopra prontissime le mani, aprendo le labbra ad un sorriso, mentre gli stavano i denti stretti pel freddo della paura, sibil? in certo modo le parole che seguono:

“E’ sarebbe, messere, bene strana novella che io mi presentassi a giurare fedelt? co’ patti del tradimento sopra la persona....” Ormai il cuore di Malatesta ha messo il tallo sul delitto; i suoi fati lo tirano.

Intorno alla croce vicino al palazzo sopra la base giace con la faccia stesa a terra un uomo vestito di sacco, cinto di corda traverso i fianchi, nudo le braccia, le gambe, i piedi scalzi; le chiome folte e sordide gli si ripiegano sopra la fronte; le mani tiene giunte in atto di orare: estenuato pi? che a corpo tuttora vivo si sarebbe creduto possibile; se mai vedeste il san Giovanni dal Donatello condotto in bronzo, avrete idea pi? completa di questa creatura e a me risparmierete la fatica di meglio efficacemente descriverla. Costui aveva nome Pieruccio. Chi ? Pieruccio? Nessuno sa dire se venisse a Firenze piovuto dal cielo, o se ve lo avesse balestrato la terra, come il vulcano una pietra; quanti anni contasse ignoravano: la sciagura aveva prevenuto l’et? nella rovina, e il tempo non trov? ruga da aggiungere o contorno da guastare; le intemperie perdevano forza sopra di lui, le infermit? non l’offendevano; forse le tribolazioni alle quali va sottoposta la rimanente specie umana volevano rispettare intanto quel santuario di dolore.

I fanciulli quando lo udivano profetare per la via, gli gridavano dietro: Pazzo! pazzo! – e ai gridi aggiungevano sassate e offese d’ogni maniera. Il povero Pieruccio si volgeva e in suono pietoso domandava: Perch? mi offendete? Ma i fanciulli, tratti da naturale vaghezza a mal fare, ch? in ci? mi trovo d’accordo con santo Agostino[16], non gli attendevano, anzi vieppi? lo infestavano, sicch? talvolta, la pazienza mutata in furore, ne afferrava alcuno, la mano alzava a percuoterlo, ma, vinto all’improvviso da tenerezza, lo rimandava baciandolo e benedicendolo. In Gerusalemme per avventura lo avriano adorato, poi forse crocifisso come profeta; a Firenze alcuni lo salutavano santo, pi? molti lo tenevano matto; chi avesse ragione non saprei, e chi torto nemmeno; forse dipendeva dal punto del quale lo consideravano; certamente amava la patria. Quando gran parte della milizia ebbe passata la croce, ecco ad un tratto lui balza in piedi come tolto fuori di s?, porge la destra mostrando un teschio umano al popolo ed esclama:

“Meglio per voi se le vostre teste fossero come questa inaridite; almeno qui dentro stanziano le formiche e talvolta anco le vipere, nelle vostre poi non trova luogo n? anche un pensiero. La maledizione di Dio vi ha percosso; – avete gli occhi e non vedete, avete gli orecchi e non ascoltate. Guai a te, o Firenze! Chi vuole intendere intenda”.

Frattanto Malatesta e la sua comitiva si accostano tanto alla croce che di leggieri possono intendere le parole del profeta. Il Pieruccio nel vederselo comparire davanti non muta aspetto, non varia discorso, anzi indirizzandosi baldanzoso al Baglione, “Ecco”, – esclama, – “ti riconosco all’impronta di Caino; n? cotta di arme n? carne od ossa nascondono allo sguardo di Cristo il pensiero del tuo cuore. Altri ha tradito il Figliuolo di Dio, tu ne tradisci la figlia… per? che la libert? nacque del primo palpito di compassione che il Creatore sent? per la sua creatura… Pentiti! Se Giuda ? tormentato settanta volte, tu lo sarai settanta volte sette…”

“Toglietemi dinanzi quel pazzo!” – grida Malatesta con labbri tremanti… – “cacciatelo via… trucidatelo…”

“Addosso! Al matto! Ammazzatelo! Ammazziamolo! – ? un profeta. – Se la intende col diavolo. – Tacete, impostore, avrebbe dato la posta al diavolo a pi? della croce? – ? un santo, vi dico. – Un ladro, ammazziamolo”. Cos? le turbe; e il Pieruccio, con tale una voce che super? il mugghio delle turbe proruppe:

“Tu sarai tormentato settanta volte sette!”

Frattanto Signoria e il Baglione procederono in silenzio. Giunti presso al palazzo, Malatesta facendosi pi? dappresso al Carduccio, gli favell?:

“Spero, magnifico messere, che vi darete ogni cura di porre al martore il ribaldo che in me per ben due volte oggi offendeva la maest? della Repubblica, e quindi, come conviene, gli mozzerete la testa”.

“Strenuissimo capitano, gli Otto e la Quarantia hanno potest? di far sangue, non io; provvedetevi davanti a cotesti magistrati… Ma torner? poi in onor vostro, messere, contendere col pazzo? – Pensateci!…”

“Se lo tenete per matto, allora chiudetelo”.

“Prima dei pazzi vorrebbersi sostenere uomini bene altramenti pericolosi alla citt?, Malatesta…”

“E quali, messere?”

“I traditori”, – concluse il Carduccio.

Capitolo Decimoterzo
L’assalto notturno

Nella tenda di Filiberto principe di Orange giocavano chi a dadi, chi a scacchi, giochi, se la tradizione ci racconta il vero, trovati da Palamede all’assedio di Troia; e pi? a carte come le invent? il Grignoart, per trastullo all’imbecilit? di Carlo VI re di Francia, o modificate a tarocchi, scoperta non invidiabile degl’ingegni fiorentini, i quali vollero significare nei re, nel diavolo, nel papa e nelle rimanenti figure scherno o ira contro le fazioni prevalse nel governo della Repubblica: carte e figure le quali adesso non rappresentano pi? nulla, tranne un consumo di tempo che, attesa l’erpete morale della presente societ?, non pu? riputarsi male impiegato per la ragione che diversamente si correrebbe rischio d’impiegarlo anche peggio.

Giocavano: e quivi, come nei tempi andati e successivi, avresti potuto contemplare il riso ostentato di chi perdeva la sua ultima moneta, – riso che muove a compassione e spavento; la tristezza finta di chi vince, tristezza ch’eccita rabbia; poi le mani trepidanti di tutti; del perditore per passione di sapersi spogliato, del vincitore per cupidigia di rapire l’ultimo soldo; e gli occhi riarsi di cupa fiamma nel disperato, scintillanti di vivido splendore nel favorito dalla fortuna, e gli ammicchi, e le parole brevi susurrate dentro gli orecchi, e il furtivo stringersi delle mani.

“Io non ricusai i vostri conforti, ora abbiatevi i miei, e sappiate, principe, che io conosco una via per la quale non solo non perderete, ma accrescerete la reputazione da voi acquistata meritamente e mantenuta fin qui”.

“Davvero, Bandino? Oh! io ti saluter? angelo mio custode, – non tanto per me, vedi, quanto per la nobile madre mia; ella morirebbe di dolore, se sospettasse un simile fatto…, ella scenderebbe nel sepolcro contristata. Copritemi il volto del lenzuolo funerario, ond’io non veda il disdoro della mia famiglia, ella direbbe. Or dunque parla, Bandino, ridammi la vita e pi? che la vita…”

“Bisogna dar l’assalto a Firenze”.

“E quando?”

“Tra due ore”.

“Tra due ore, Bandino?”

“Nulla manca. I Sanesi provvidero quattrocento scale per salire, i ferri e gli uomini per trucidarsi sono pronti”.

“E a che mena l’assalto?”

“O voi espugnate la citt?, e allora avrete danaro pi? che non basta a soddisfare le paghe…”

“E se, come temo, non l’occupo?”

“Vi moriranno tutti o parte i creditori; e in ogni caso saranno tanto importuni di meno”.

“Giovanni Bandino, voi mi oltraggiate”.

“Dio me ne guardi! – le azioni meglio magnifiche che il mondo ammira trassero spesso principio da pi? ignobili cause: ormai ho passato il mezzo della vita, n? gi? mi sono giocato gli anni, come voi i fiorini di papa Clemente; conobbi i grandi dell’et? nostra; piuttosto che eroi davvero, mi parvero giocolieri di fama – e cos? penso che fosse la maggior parte degli antichi…”

“Ma la notte ? troppo scura, e Dio manda gi? acqua a bigonce… in qual modo si distingueranno le insegne? Come si ripareranno dal fango? I capitani biasimeranno questo mio ordine come pessimo accorgimento di guerra…”

“I capitani prima di tutto obbediranno, – e qui sta il meglio; – poi risponderemo loro essere capitani di vecchio stile: quanto pi? disagiato il tempo, tanto pi? verosimile si trovi sprovveduto il nemico; il certame a luogo e a giorno fissi occorrere nella tavola rotonda soltanto, e dal re Arturo in poi aver progredito l’arte militare: ancora, se, giusta il costume di Firenze, hanno le milizie nemiche festeggiato il presente giorno, come vigilia di San Martino, a quest’ora dormono sepolti nel vino: la pioggia stessa e la oscurit? vi danno favore; a cagione della prima, la polvere bagnata non conceder? si sparino le artiglierie; a cagione di questa, quando pure le potessero sparare, non saprebbero in che punto colpire… Sapienza militare; accorgimento astuto, amore di gloria – e sopratutto necessit? di rifare i denari consigliano ad assalire Firenze tra due ore.

“Siete pure i cervelli sottili voi altri Fiorentini! Fra due ore l’assalto: ? detto!”

…All’improvviso rimbomba un colpo d’artiglieria. Il cittadino di Firenze balza a sedere sul letto e tende l’orecchio, timoroso di non essersi ingannato. Un altro colpo, – Ch’? questo? Qual nuovo caso ci minaccia adesso? Comincia la campana dei Signori, rispondono le campane di santa Reparata, tutti i campanili della citt? suonano a stormo; le artiglierie spesseggiano i tiri.

– Misericordia! questa ? l’ultima notte della mia vita! E il cittadino poc’anzi lieto delle tepide piume si gitta gi? scalzo sul pavimento, apre le imposte e nudo si espone al gelato mordere dell’aria; ode un frastuono confuso di gente che corre e che grida, ma non gli riesce distinguere cosa che valga a toglierlo dall’ansiet?. Si veste in fretta, cinge la spada e, nulla badando alla pioggia, al freddo, ai pericoli, precipita sulla pubblica via. Vi furono padri di famiglia i quali, inteso il primo colpo di artiglieria, si tolsero pianamente dal lato alla moglie, sperando e pregando ch’ella pure dormisse; ma la consorte si sveglia e desta i figli, e con essi loro si pone traverso la porta, contendendo al marito l’uscita; i figli gli stringono le ginocchia, la moglie lo abbraccia su i fianchi; pianti e singulti che spezzano il cuore: “Oh! non uscire, perderai la vita.” “Figliuoli miei” – parla blando il buon cittadino, – “mia dolce consorte, s’io pur rimango, il nemico espugner? la terra, e me uccider? con voi, meritamente, invendicato, Perch? mancai alla patria: se mi lasciate correre alle difese, ributteremo i barbari… o in ogni caso non morir? senza vendetta… n? i vostri occhi saranno funestati dalla mia strage… Sgombratemi il passo, tacete – e datemi l’arme”, – tacquero. Lo armarono, e quando fu partito ripresero il pianto con l’impeto del fiume che rotto l’argine straripa. Altrove la madre dest? il figlio e lo spinse fuori delle domestiche mura: non mancarono donne le quali, mentite o non mentite le vesti, vollero a ogni costo uscire a combattere con gli amanti o mariti loro.

“All’arme! all’arme! – il nemico appoggia le scale alle mura… Pieruccio le ha salite per darvene l’avviso”.

Un orlo di fuoco manifest? il contorno delle bastite di Firenze, le palle degli archibusi fioccarono spesse quanto la pioggia; gl’imperiali, disperati potersi pi? oltre nascondere, fatto buon viso alla fortuna, continuarono a salire, animosamente gridando: Sacco! palle! citt? presa!”

“Eretici senza fede! muggiva Lupo, udendo quel grido di sopra al suo campanile, citt? presa! Almeno aspettate a dirlo quando porrete il piede su la piazza dei Signori; mentre si allestisce la festa, io vi mando la treggea”. E qui, toccati i sagri con la corda accesa, lanciarono un nuvolo di schegge mortalissime contro il fianco degli assalitori.

Filiberto, sconfortato da tante morti ordin? si ritirassero le schiere, guardando prima di portar seco i cadaveri dei compagni, affinch? i nemici, contemplata la mattina la strage, non avessero motivo di andare baldanzosi; e cos?, come ordinava fu fatto, tornandosi tristi l? donde poc’anzi con tanta audacia d’orgoglio si erano dipartiti e maledicendo di cuor loro il misterioso signore, il quale, pochi anni avanti, gli aveva spinti ad incontrare morti e ferite contro un papa, a favore di cui mandavali adesso ad esporre la vita. Grange, camminando verso la tenda, si volse dintorno a s?, e scorgendosi prossimo il Bandino, gli disse in suono turbato:

“Or che cosa abbiamo guadagnato noi dal vostro consiglio, messer Bandino?”

“Parmi moltissimo”.

“E come?”

“Prima di tutto ci ha guadagnato il paradiso (ma questo, credo, meno di ogni altro), Perch? se alcuna anima buona viveva tra noi, sciolta stanotte dai legami terreni, se ne and? diritta diritta alle dimore celesti”.

“Tregua ai motteggi… noi camminiamo sul sangue”.

“Con buona licenza vostra, messere lo principe, lasciatemi proseguire; in secondo luogo, pi? del paradiso per le allegate cagioni guadagnava l’inferno; – sopra tutti avete guadagnato voi, principe”.

“Io? tu mi deridi?”

“Dico da senno io; non sapete voi che il capitano Corrado Essio, venuto a morte, vi ha istituito erede d’ogni sua facolt??”

“Corrado ? morto? Ahi! mio buono, mio leale amico, io ne terr? il cuore afflitto fino…”

“A domani”.

Il Bandino, rimasto solo, stese la mano in atto di minaccia dalla parte ove giace Firenze ed esclam?:

“Quanto mi tarda la vendetta! Pur quando dovessi rimanermi solo ad oste contro di te, Firenze, o per forza o per tradimento vedrai il tuo giorno finale”.

Capitolo Decimoquarto
Il Morticino degli Antinori

Spunta il giorno: ma quantunque fosco, concede agli Orangiani la vista della bandiera imperiale inalberata su l’asta sotto la bandiera del comune di Firenze, e ci? li concita a rabbiosissimo sdegno; la luce ancora manifesta al nemico il piccolo numero dei nostri, e ci? gli partecipa ardimento. Filiberto spedisce ai colonnelli lontani messaggi con gli ordini accomodati alla occorenza; crollansi le compagnie e cambiano forma: era adesso suo disegno indirizzare alle punte estreme dell’ale della nostra milizia una mano di cavalleggeri e di fanti meglio spediti per circuirla, e cos? divisa dalle mura tagliarle la ritirata e poi a bell’agio piombar addosso col grosso dell’esercito e sterminarla senza rimessione; se gli veniva fatto di superare l’ale, non uno dei giovani fiorentini sarebbe tornato a Firenze. Il signore Stefano, se avesse condotto numero pari di gente, o lo avesse avuto di poco inferiore, certamente avrebbe disteso le file all’avvenante che le allargava il nemico, dopo attelati gli eserciti, non si sarebbe rimasto dallo ingaggiare battaglia sopra tutta la fronte; ma essendo pochi, conobbe non avanzargli a perdere pi? tempo e dover mettere ogni studio a ritirarsi; attese pertanto a rendere vano lo sforzo del nemico, prevenendo il suo moto; ordina ai capitani delle due punte girino velocissimi sul fianco destro i soldati che a lui posto nel centro stavano a mano sinistra, sul manco, quelli che gli stavano a destra; e descritta sul terreno una linea sferica, si uniscano in colonna ritirandosi per alla Porta di San Piero Gattolino; lui aveva molto bene considerato come cos? procedendo i cavalli nemici potevano cogliere di fianco la colonna, romperla quasi serpe sul dorso e impedirle ogni via di salute; e a questo sper? provvedere con la celerit? dei passi, per cui, lasciato aperto certo spazio di terreno davanti i nostri, le artiglierie delle mura senza timore di offenderli potessero fulminare gl’imperiali e trattenerli da molestare la ritirata. Io non so quello sieno per dire i presenti uomini di guerra sopra tali ordinamenti di milizia; quello che so troppo bene si ? che anche con quei modi la umanit? si lacerava e faceva delle sue osse biancheggiare la campagna; miserabile nostro destino, di cui non ispero, almeno per qualche migliaio di secoli, la fine.

Non andarono falliti i concetti del Colonna: le artiglierie fecero buonissima prova; gli Orangiani, essendo stati alquanto sospesi, perderono il destro a inseguirli; posto uno spazio tra loro e i nostri, costoro diventarono segno della tempesta di fuoco e di ferro che prorompeva fuori delle mura; quasi a morte certa correva chiunque si fosse avventurato su quel terreno. O per prudenza del capitano, o per beneficio della fortuna, vedevano gli Orangiani sfuggirsi di mano una preda ormai tenuta sicura. Ora avvenne come tra i primi cavalleggeri spediti dal principe a circuire l’ala sinistra del nemico si trovasse Giovanni da Sassatello, soldato italiano quanto valoroso in arme, altrettanto perduto di fama. Lionardo Frescobaldi, giovane d’inestimabile bellezza di corpo e di animo ferocissimo, caro sopra modo al Morticino degli Antinori pi? per questa seconda che per la prima qualit?, veduto per caso il Sassatello, lo chiam? con gran voce:

“O ladro, f?tti oltre! – O ladro, non hai le gambe, come le mani pronte? F?tti oltre! Le palle di Firenze ti talentano meno dei suoi fiorini!”

Una palla vola tra la testa del cavallo e il capo del Sassatello, un’altra gli porta via il cimiero, un’altra interrandosi presso a lui lo cuopre di fango: ma i suoi giorni sono contati; lui procede sicuro come sotto le volte di Santa Maria del Fiore.

Lionardo afferra con ambe le mani la picca, che in quei tempi le fanterie usavano lunghissima, ed aspetta a pi? fermo il momento di spingerla nel collo del cavallo; dove ci? gli venga fatto, il destriere stramazzer? in un viluppo col suo signore, e mentre questi grave di armatura tenter? sollevarsi, lui, stretta la spada, lo spaccer? da questo mondo. E se il destriero non era pi? sagace del suo signore, senza fallo gli riusciva; ma l’animale saltando destramente da parte, schiva la punta la quale sfior? in passando la gamba al Sassatello. Lionardo subito si volge impetuoso per timore di essere preso alle spalle; la troppa previdenza e la troppa prestezza gli nocquero; forte tenendo pur sempre nelle mani la lunga picca, imbatte nelle groppe del cavallo, che un’altra volta girandosi offerisce campo al Sassatello di ghermire il suo nemico pel collo, e cos? fece, e trattolo a s?, lo lev? da terra. Lionardo si sentiva strangolare; tent? rompersi il collarino e non pot? aiutarsi; allora si risovvenne avere la daga, la trasse fuori, e sollevato il braccio incise profondamente il cavallo nella spalla; inferocito l’animale dallo spasimo, imperversa per la campagna traendo in sua bal?a cotesti due inferociti. Lionardo agita le gambe per l’aria e stretto alla gola non profferisce parola alcuna di resa; al Sassatello sbattuto dalla corsa non ? concesso assestare un colpo; fuga d’inferno era quella.

N? per? alcuno si moveva di schiera; solo il Morticino degli Antinori, per ordinario pallido, adesso poi cosperso di pi? spaventevole pallore, accorre come forsennato, e giungendo le mani gridava da lontano:

“Capitano Giovanni, deh! per Dio, lasciatelo, lui ? un fanciullo: non gli far male, in nome del tuo Cristo; bada.... rammentati che tu pure hai un figlio di et? uguale alla sua… Lasciatelo, Giovanni, io vi verr? prigione invece di lui…”

“Vedi il gagliardo! io lo tengo come un’oca… Forse dalle oche impar? a gridare; da cui il combattere? Per avventura, Antinori, da te?”

“S?, via, ma rendilo.”

“Io non lo tengo, per soldato, e ne voglio per riscatto mille fiorini d’oro”.

E disparve galoppando. L’Antinori cammina a capo basso e non profferisce parola.

Tornato a casa, chiese bruscamente alla serva: “Dov’? mia madre?”

“Badate, Giovanfrancesco, – pensate ai comandamenti della legge di Dio; io vi sono madre di latte… ma madonna v’? di sangue, non le mancate di rispetto…”

Il Morticino non l’ascoltava e prorompendo nella stanza della madre trov? seduta sopra un seggiolone la vecchia madonna assopita di un sonno leggiero. La vecchia donna, altera del nobil sangue che le scorreva nelle vene, piena della reverenza dovuta alla materna autorit?, si lev? subito con tale una forza di cui si sarebbe riputata incapace, allontan? da s? la sedia, mosse un passo in avanti e sollev? il braccio destro in sembianza d’imprecare; una striscia di fuoco le attravers? le guancie; gli occhi le si dilatarono minacciosi e terribili: era una figura da Michelangelo.

“Tu tronchi la mia agonia, non la mia vita; per pochi momenti vuoi tu renderti parricida? Va… io…”

“Per Dio, arrestatevi, madre… Io! Qual demonio vi caccia questo pensiero nella mente? Conoscete voi Lionardo Frescobaldi… quel nobile giovanotto che sovente usa qui in casa? S?, voi lo conoscete… or lui cadde test? prigioniero, e gli hanno posto il riscatto addosso di mille fiorini d’oro: ora nel pensiero di torli in prestanza da altri la mia anima geme per immensa amarezza. Oh! casa Antinora decaduta, quanto t’era lieve un giorno trovare nei tuoi forzieri mille fiorini d’oro!… ”

La vecchia madonna declin? il braccio e sciolse un sospiro; poi strinse in amplesso amorosissimo il Morticino esclamando:

“Sangue superbo – e figliuol mio! tu sei la mia consolazione… Aspetta… Prendi questo scrignetto, Giovanfrancesco; io gli aveva serbati per qualche estremo bisogno della vita… spero che basteranno; or volgono forse cinquanta anni che non gli ho annoverati, quanti essi sieno ignoro… ma spero che basteranno. Va… lasciami in pace… e non farmi pi? cos? paurosamente aprire le palpebre… le tengo chiuse per insegnare loro a morire”.

…Il Morticino degli Antinori aveva tolto seco un mulo ed un fante, portava in cima alla picca il pennoncello bianco e camminava, lieto cantando, verso il campo imperiale. Antinori, giunto ai piedi della bastite nemiche, vide ad un tratto abbattere meglio di venti archibugi ed accostare le corde fumanti ai foconi; onde, sollevato il pennoncello grid?:

“Messaggero! – Rispetto al messaggero! Chiamatemi il capitano Giovanni da Sassatello, e ditegli che venga col prigione Perch? il riscatto ? pronto”.

Il giorno toccava i gradini ultimi del crepuscolo; il cielo si era mantenuto pioviginoso e tinto in grigio: a qualche distanza appena vi si vedeva.

Mostrandosi da’ bastioni fino a mezzo petto, Giovanni da Sassatello domand?:

“Chi ? che mi vuole?”

“Capitano Giovanni, ho qui meco i mille fiorini, rendetemi il prigioniero”.

Qui apparvero due altre figure dietro al Sassatello; una di quelle era Eustacchio unico suo figlio, l’altra il Frescobaldi; questi pareva stanco o ferito, Perch? stava abbandonato fra le braccia del figlio del capitano Giovanni, il quale con infinito amore lo soreggeva.

“Di gran cuore, messere Antinori; se non che l’illustrissimo principe ha fatto chiudere di buona ora le porte del bastione e volle la chiave presso di s?, onde non trovo modo per uscire fuori…”

“Poco importa: fate scendere il prigione gi? per una scala e poi vi mander? su per una corda il danaro”.

“Prima il danaro”.

“Prima il prigione”.

“Dio vi mandi la buona notte. Andiamcene, Eustacchio…”

“Capitano, ascoltate… non partite… componiamo; mezzi prima mezzi dopo restituito il prigione”.

“Questi mi paiono compromessi da trecconi: di pi? nobil sangue e di pi? gentile intelletto io vi stimava, messere Antinori”.

“Or via, calate la corda, e vi mander? il danaro…”

“La corda a un punto io caler? e la scala.”

Cos? fu fatto: ebbe il Sassatello i fiorini; Eustachio sollevando Lionardo, lo pone su la scala, ve lo adatta, lo lascia. Ah! tracolla gi? di un colpo ai piedi del bastione.

“Per la santissima Annunziata”, urla il fante dell’Antinori, “messer Lionardo ? morto!”

“Morto! come morto?” ripete forsennato l’Antinori.

“Vi aveva forse promesso rendervelo vivo?” – forte ridendo diceva il Sassatello, – “il patto era renderlo, ed ecco, io l’ho reso; adesso vi dar? anche la giunta. Eustacchio, fa di non mancare quel gaglioffo fiorentino”.

Balen? un archibuso; l’Antinori si sent? tocco dalla palla, ma senza dolore: volle parlare, e non potendo, si morse le mani: una striscia di fuoco gli solc? la guancia, cotesto fuoco era una lacrima: la ribevve; non una stilla deve sgorgargli della immensa sua rabbia. Propone avventarsi alla scala, salire sui bastioni, inebbriarsi nel sangue del traditore: ma, bersaglio a cento archibusi, sarebbe certamente rimasto ucciso; mentre vuol muovere un passo la terra gli manca sotto, e strammazza. Il fante, posti su le groppe del mulo il cadavere del giovane Frescobaldi e il Morticino ferito, riprese mesto la via di Firenze.

Capitolo Decimosesto
La vendetta

Erano cinquecento fanti: cento archibusieri e gli altri quattrocento in corsaletto armati di partigianoni e di alabarde; ai quali si aggiunse una banda della milizia del gonfalone dell’Unicorno capitanata da Alamanno de’ Pazzi; sopra il corsaletto portavano tutti un camicia bianca per distinguersi dai nemici, motivo per cui questa impresa notturna si chiamava incamiciata.

Quanto pi? possono chetamente s’inoltrano; divisando Stefano Colonna incominciare l’assalto dall’alloggiamento del colonnello di Sciarra Colonna, contro il quale nudriva nimist? mortale, si apprestano a salire su pel poggio per a Santa Margherita a Montici. Alcuni pi? arrisicati e conoscenti del sentiero trascorrono; ecco sono giunti presso al tabernacolo delle cinque vie, dove i nemici tengono due sentinelle perdute.

“Chi viva?” – gridano entrambe.

“Viva la morte!”

Si ode una procella di colpi; un suono di usberghi percossi sul terreno; le parole: Ges?, abbiate misericordia dell’anima mia! vengono tagliate a mezzo, cos? ordinando ragione di guerra; quindi un gemito roco, e poi pi? nulla.

S’inoltrano per la valle che giace tra Rusciano e Giramonte, la passano, gi? toccano alla coda dell’esercito. Apra l’inferno le sue porte! Ecco improvvisamente danno dentro all’alloggiamento di Sciarra; molti, i pi? avventurosi, dal sonno si trovano balestrati nell’eternit?; altri si svegliano per vedere soltanto la spada che penetra loro nelle viscere: sorge un cieco viluppo, un trambusto di gente che fugge o che muore e un gridare: – Accorruomo! – accorruomo! – arme! aiuto! – e minaccie e preghiere, suoni compassionevoli o ferici. Smeraldo da Parma, luogotenente di Sciarra, corre forsennato per radunare le milizie, rincorarle e far testa; cos? al buio si scontra nel signore Stefano e lo garrisce come neghittoso; questi, accecato dalla brama di sangue, lo scambia con lo Sciarra suo consorto e gli menando un colpo di zagaglia nel petto, “Sciarra”, – gli grida, – “or ti parr? ch’io sia venuto troppo tosto!” Segue una mischia atroce, i nemici, mentre tentano difendersi, l’un l’altro, confondendosi, percuotono; dove adunarsi non sanno; non risplende lume, per ogni parte li circonda la morte. – Oh Dio! qual desolazione ? mai questa! – potessimo almeno morire da soldati combattendo! – sia tradimento? – tradimento! – tradimento! E lo scompiglio e la strage crescono terribili pi?, quanto meno veduti. Dove l’affronto mena pi? tremendo il rumore: la voce del Pieruccio, superando i gridi e le percosse, invoca i lupi e gli avoltoi ad accorrere per satollarsi di carne battezzata.

Dentro una trabacca distesi sopra il medesimo letto dormono due; giovane l’uno, giace nudo avvolto dentro la coltre con un braccio sotto il capo, l’altro penzolone fuori della sponda; il secondo di maggiore et?, armato di tutto punto, eccetto dell’elmo; a giudicarne dal volto paiono padre e figliuolo. Giovanni da Sassatello turbava in quel punto un mal sogno; gli pareva che una moltitudine di armati circondasse il letto e ve lo tenesse su fermo; lui si sforzava svincolarsi, e non gli riusciva, dava scossoni, raddoppiava i conati, e sempre invano; grondava sudore, agitava le labbra con sordo mormorio.

Il sogno era verit?, almeno in parte; una mano dei nostri penetra nella trabacca e va difilata alla sua volta per ispaciarlo di vita.

Egli continua nel sogno spaventevole; uno degli armati con man potente gli strappa l’usbergo e gli pone una mano sul cuore; per tutte le membra gli scorre ribrezzo; batte i denti e non pu? proferire parola. Intanto l’armato si trae la daga dal fianco; poi, come se lo impacciasse la visiera, con la manca la solleva. La coscienza del volto del cavaliere gli presenta la sembianza di Lionardo Frescobaldi da lui ucciso, a tradimento, il quale, comech? morto, veniva a prendere la sua vendetta.

I nostri gi? gli stanno vicini: la sua morte precipita gi? dalla punta di un pugnale..

“Morte di Dio, fermatevi!” – urla prorompendo nella trabacca il Morticino degli Antinori, che cercando in ogni lato il Sassatello, si era a caso col? abbattuto in quel punto, e al chiarore della lampada posta sopra la tavola lo aveva ravvisato, – “fermatevi! Se lo uccidete dormendo, voi mi togliete pi? che mezza la vendetta. Svegliati su, Sassatello, svegliati per contemplare la strage del tuo figliuolo. – e morire”.

Si svegli? lo sciagurato, – stupid?, – stette per svenire, – poi ad un tratto gli rende potente la persona una sopraumana gagliardia; ? sbalzato su in piedi, ha stretto una mazza d’arme, abbassa colpi a destra e a sinistra, si versa intorno al letto come serpente col suo corpo flessibile.

Affannosa, anelante, pure ricupera la voce e, “Eustachio”, – grida, – “svegliati, difenditi, figlio mio… noi siamo morti”.

Il giovinetto sonnacchioso:

“Padre, che hai? ” – ma sentendo il fragore delle armi, spalanca gli occhi, vede il pericolo e, ghermita dal capo del letto una spada, si pone con un ginocchio piegato a difendere francamente la sua vita.

“Santi del paradiso, venite in soccorso di noi!” – esclama il padre pur tattavia menando le mani.

“I santi si chiudono le orecchie alle preghiere dei traditori”, – gli gridano dintorno.

Amor di padre lo costringe a volgere la faccia, e contempla il Morticino, il quale, copertosi con la rotella la testa, drizzata la punta della spada, spia il momento di cacciarla nel costato al figliuolo; lui distende la manca e, forte abbrancando l’Antinori pel collo, grida: “Cane, indietro! non me lo ferire, lui ? innocente”.

…Dopo un breve silenzio, silenzio di voci, per? che i ferri aspramente battuti tra loro mandassero spaventevole fracasso, il padre in suono di pianto domand?:

“Eustacchio, come ti difendi?”

“Bene…”

Ed in quel punto il giovane toccava una seconda ferita. Finalmente l’Eustacchio cade, il Morticino gli balza sopra, la mano gli pone entro i capelli, intorno al pugno gli attorce, e traendole di forza lo strascina. Il padre, visto quel caso miserabile, non gi? immeritato, cos? impetuoso scosse le braccia che mand? quei due che lo tenevano stretto lontani da s? a rotolare per terra, ed accorreva al soccorso… Ma i due caduti urtando nella tavola su la quale ardeva la lampada, la rovesciano; manc? la luce… ma il raggio moribondo si prolunga riflesso sopra la spada del Morticino che si abbassa sul corpo del giovane Eustacchio. Quando le amate sembianze gli scomparvero dallo sguardo al Sassatello, mancate sotto le gambe, venne meno il coraggio, gli si ottenebr? l’intelletto, rimase immobile, pauroso di offendere le membra del figliuolo, non ardiva movere passo: i nemici lo atterrarono, gli avvinsero di corde le braccia; lui non mand? sospiro, non gemito di angoscia; immerso dentro un abisso di dolore, stette muto.

Capitolo Decimottavo
Amore

Lui dormiva, e la vergine gli vegliava a canto, e considerando quella fronte pacata, la prese vaghezza di deporvi un bacio. Il bacio ebbe virt? di svegliare Vico, che glielo rese tremante su i labbri. Gli angioli poterono vedere cotesto atto senza velarsi con l’ale la faccia, imperciocch? loro si amino di pari amore nel cielo. La musa rivel? al poeta la natura angelica: due anime le quali di amore continuo si sieno amate sopra la terra lass? nel paradiso formano un angelo. Ed intrecciando le braccia i due giovani si recarono nel giardino.

“Di’, mi ami, Ludovico?”

“E non te lo dissi le mille volte? e non lo vedi? e nol sai?”

“Lo so, ma poich? una esultanza ineffabile mi scende al cuore nel sentire dalle tue labbra che mi ami, cos? godo ascoltare perpetuamente ripetuta questa vibrazione armoniosa; i’ fui come il fanciullo che mai non si stanca dal gridare un nome per intenderlo ripetuto dall’eco della caverna”.

“Ma il mio cuore non ? mica una spelonca vuota, il grido che ti rimanda non ? l’eco della tua voce, lui possiede voce propria e potente come la tua”.

“S?, – n? io voglio cederti in amore – n? desidero che tu me.... i nostri cuori sono…”

“Due creazioni gemelle di un medesimo pensiero…”

“Un suono mandato da due corde compagne. Scambievolmente ci tengono luogo di tutto, di padre, di madre, dei parenti pi? cari; all’uopo ancora potrebbero tenerci luogo di paradiso – e di patria”.

“Di paradiso forse… di patria no…”, disse una voce forte e profonda che spavent? i due amanti; e al tempo stesso videro sorgere dalla terra uno spettro in atto minaccioso. Annalena si stringe ai fianchi di Ludovico e glieli abbraccia trepidamente esclamando:

“O Pieruccio, siete voi? O che fate accovacciato qui dentro al giardino?”

“Il tradimento c’inviluppa nelle sue spire, come il serpente dell’Apocalisse”.

“Tradimento! in nome di Dio, di quali traditori favellate, Pieruccio?”

“Dei traditori ch’io conosco, e qui verranno quando la campana dei Priori avr? battuto mezza notte: io gli ho ascoltati, essi favellano del papa, del Malatesta e dei maggiori cittadini di Firenze; convenuti ormai nel tradimento, e’ pare che non si accordino sul prezzo e sul modo. La patria annega, gi? sparisce, ? sparita, sola una mano tende fuori delle acque, il vortice la travolge, e tutto ? finito”.

“Per amore di Dio, favellate, Pieruccio! Non mi celate nulla: amo la patria anch’io, e per salvarla darei la vita”.

“Tu un giorno mi medicasti la testa; ora mi sani il cuore: io voglio abbracciarti; non mi sprezzare, non percotere, veh! Or dunque sappi avere Malatesta Baglioni imbandito una mensa e chiamato a convito i maggiorenti della terra; sai tu di che sono composte le vivande che pose loro davanti? Delle membra della nostra patria. Affrettati; col? troverai un amico del tuo defunto genitore, Dante da Castiglione: quivi incontrerai ancora Ludovico Martelli: di’ loro che qui vengano teco, e qui verranno; se possono condurre compagnia, sar? meglio, altrimenti vengano soli, ma non dimentichino l’arme: va, vola”.

“Ma se venissero”, – soggiunse Ludovico esitando, – “e non trovassero i congiurati, non penserebbero che io mi fossi fatto beffe di loro?” Pieruccio la dubbiezza del giovane considerando e vedendo quanto poca fiducia le sue parole inspirassero, sent? assalirsi da insopportabile fastidio per la vita; onde volgendo i passi vicino ad un albero, mormor?: “Io valgo meno di un cane morto”; e sollevati gli sguardi aggiunse: “Albero, albero, prestami un ramo, io ti dar? un frutto… che tu non portasti fin ora… un tristo frutto in verit?… un’anima disperata dentro un corpo disfatto....”

“Consolatevi… io vado…”

“Va dunque, ma prima ascolta queste mie brevi parole. Sai tu bene che voglia dir pazzo e che dir savio? Se pazzo ? quegli che sul pericolo, addormentandosi, confida a mano ignota la spada che pu? ferirlo, le chiavi della citt? allo straniero, gi? non sono io il pazzo. Tu ti pensavi savio dubitando delle mie parole e ricusando l’andare; eppure fa il tuo conto: andando, forse getterai i passi e avviserai la gente di un pericolo vano: e per altra parte forse tu scoprirai un tradimento, la patria pericolante sosterrai, a mille cittadini la roba salverai e la vita. Or, se tu fossi savio, ti par lui che tra queste due vicende si possa tentennare, tra la permanenza e l’andata? Prima di credere pazzo il tuo fratello, pensaci due volte, e sappi che sovente i consigli di coloro che il mondo reputa savi appaiono miserabili all’alienato di mente: adesso vola”.

E Ludovico senz’altre parole aggiungere si poneva tra le gambe la via. Intanto il cielo aveva mutato aspetto, l’aria si era fatta uliginosa, e d’ora in ora l’agitava un vento soffocante come l’alito del deserto; via trasvolando pel cammino abbandonato, Ludovico udiva sibili spaventevoli, gemiti arcani d’ignoti addolorati. Trovato Dante da Castiglione e Lodovico Martelli, Vico con compagni si mise in agguato vicino al palazzo dove si trovava Malatesta Baglioni. Pur troppo Pieruccio aveva scoperto il vero: tre uomini stavano dietro il palazzo, e sovente con empie imprecazioni dimostravano la impazienza loro, come quelli che avevano lungamente aspettato invano.

Alla fine comparve un punto nero dalla lontana, il quale andava ingrandendosi a mano a mano che si accostava. Pervenuto a convenevole distanza, uno di coloro che aspettavano gli messe contro la voce dicendo:

“Come ti chiami?”

“Mi chiamo Odio; e tu?”

“Vendetta.”

“Vieni dunque, sposiamoci; ci sono amiche le tenebre, e gli spettri assisteranno ai nostri sponsali.”

“Quale ? il dono delle nozze che mi dai?”

“Io ti dar? un pugnale”.

“Il tuo pugnale ? corto”.

“Basta per giungere al cuore dei nostri nemici”.

Allora si accostarono, si strinsero le mani e stavano per cominciare il colloquio, quando, non si potendo pi? frenare, il Castiglione proruppe:

“Ahi! traditori, siete tutti morti”. E, balzato di un salto fuori della siepe, prese a minacciare i traditori col ferro.

Vico, Pieruccio e il Martelli lo seguono cacciando urli spaventevoli.

Capitolo Decimonono
La sfida

I congiurati, dalla subita apparizione soprafatti, dai forti gridi atterriti, mal potendo distinguere quanta gente e quale venisse loro addosso, si volsero a fuga precipitosa. Il Martelli coll’ardore del veltro si pose alla ventura dietro le tracce di uno fra loro; passarono il borgo di Santo Iacopo; con uguale prestezza la piazza di Santo Spirito traversarono, il canto alla Cuculia e le vie contigue della Fogna, del Leone e dell’Orto; non profferirono parola, imperciocch? la rapidit? del corso loro impedisse la voce; erano entrambi gagliardi, entrambi di pi? velocissimo, sicch? l’uno poneva l’orma dove l’altro la lasciava, e spesso il fuggitivo sent? rimanersi svelti i capelli tra le dita dell’inseguente e dall’alito infiammato di lui avvamparsi le guance; continuano la fuga e la cacciata per Camaldoli, per Borgo San Frediano, lungo le mura, e riescono al Ponte alla Carraia. Qui lo inseguito avendo il buon tratto precorso il suo persecutore, si ferm? e, quasi vergognando essersi lasciato vincere dalla paura, gitta via la veste di frate che lo impaccia, e, tratta la daga, si pone a capo del ponte in atto di difesa.

Quantunque il Martelli non avesse gridato accorruomo, pure, correndo vicino alla Porta San Friano, le milizie quivi stanziate udirono il rumore, ed alcuno di loro, mosso da vaghezza o da comando, si pose per buon rispetto a seguitarlo. Lui per? travolto da quell’impeto non se n’era accorto, e comecch? al paragone dell’inseguito gli fosse mancata la lena, nondimeno precorreva di assai coloro che gli si erano fatti compagni.

Il fuggitivo, se lo vedendo accostare, stette in forse di ucciderlo e poi riprendere il corso; ma considerando come l’inseguente si avvicinasse lui pure con la spada nuda, n? dalle sembianze apparisse uomo da spacciarsi cos? ad un tratto, tem? perder tempo a chiudersi ogni strada allo scampo, onde ? che, di nuovo voltate le spalle, passasse il Ponte della Carraia.

Il Martelli, confortato dal pensiero di vederselo pi? vicino, immaginando costui avesse fatto sosta a riprender lena e baldanzoso per riputarsi sul punto di arrestarlo, raddoppia lo sforzo, sicch? in quella fuga rovinosa, percorrendo nel buio della notte uno spazio sospeso tra le acque e il cielo, non muovendo altro rumore che quello dei passi velocissimi, si assomigliavano alla visione della donna scapigliata inseguita dallo spirito del cavaliere Giuffredi intorno alla fossa dei carboni ardenti, esposta dal dottore Elinando di santa memoria, a conforto dei buoni e per terrore dei tristi.

Cos? trasvolando pervennero in via di Parione; col? sul canto che mena alla Vigna Nuova stette una casa onorata di cui adesso non rimangono vestigi.

Sebbene alta fosse la notte, una finestra di cotesta casa appariva illuminata da luce solitaria, quale si addice alla veglia di un filosofo o alla insonnia di un penitente. A quel punto si dirige il fuggitivo; e giuntogli dappresso, manda un fischio acutissimo. Allora fu veduta balenare la luce, come fiamma che si accenda nelle notti di estate, e sembra stella che tramuti luogo. Il fuggitivo scomparve voltando il canto, e Ludovico, di cui all’anelito sofferto per la fatica si aggiunse un palpito pi? veemente del primo, giunto a capo della via, si volse bramoso e non vide n? ud? pi? nulla: il fuggitivo era scomparso. Allora Ludovico pensando alla veste di frate, al luogo, ad una certa rimembranza confusa delle forme del fuggitivo, al lume mosso, un lampo sinistro d’intelligenza gli strisci? sull’anima, sent? riardergli un’ira feroce le viscere. Si avvicin? alla casa di Maria Benintendi.

Nuovi forti colpi e di mano in mano tempestavano alla porticella; sicch? la Maria, timorosa non destassero il vicinato, fattosi cuore, si reca in mano la lampada e scende:

“Ch’? questo, messeri?”

“Aprite in nome della Signoria.”

“Messeri, io sono gentildonna e sola in casa; questa magione appartiene a Niccol? Benintendi, che stanotte ? dei Buonuomini al palazzo; – per? avete tolto sbaglio, e lasciatemi in pace”.

“Se sola vi trovate o accompagnata, poco c’importa. Noi non iscambiamo dimora; aprite di queto od atterriamo la porta.”

Maria per lo men reo consiglio, paventando peggio, aperse l’uscio. Ludovico Martelli non aveva ad arte alterato la voce; in breve spazio anima e corpo gli aveva cos? stravolto la sua fiera fortuna ch’egli stesso, non che altri, non sarebbe giunto a riconoscersi per quello che fu; gli occhi a mezzo chiusi e invetriati, come quelli dell’etico; i muscoli del volto rigidamente immobili, la bocca aperta, i labbri cadenti, e d’ora in ora un anelito impetuoso gli prorompeva dalle narici dilatate; spaventevole a vedersi come la testa mozza che il carnefice afferra pei capelli e mostra in testimonio di ferocia ai popoli stupiditi.

E di vero Maria ne rimase spaventata: col capo inclinato verso la spalla, pallida, quasi vinta dal fascino, si pose a salire la scala. Il Martelli poneva il piede dove ella moveva il suo. Pervenuti a mezzo della domestica cappella, si fermarono, l’uno di faccia all’altra, n? si guardavano n? movevano labbro....

Finalmente Ludovico, continuando nella sua immobilit?, con voce che gli usciva dai precordii incominci? a favellare: “Svelami traditore che hai riparato qua dentro....”

“Traditore?” – esclama Maria dimostrando col gesto altissimo sdegno, – “dov’? il traditore?”

“Non te l’ho detto? Qui”.

“Io non conosco traditori....”

“Donna, che, piena dentro di putredine, tu ti mostrassi di fuori parete scialbata, bene sta: ella ? questa la vostra parte, femmine! ma che in breve spazio tu abbi perduto il rimorso e il pudore, ci?, per Dio, mi spaventa. Qual ? il verme velenoso che cos? subito guast? il bell’albero della tua vita? Or dove ti nascondi codardo dal fiato velenoso? Esci fuori…” Nessuno risponde. Dopo lungo silenzio Ludovico continua:

“O patria mia! uomini che non ardiscono mostrare la fronte t’insidiano nell’ombra; quando la notte ? pi? buia essi aguzzano il pugnale e ti aspettano al varco, come il ladrone sulla pubblica via!”

E di nuovo si tacque, poi con gran voce riprese:

“Esci, codardo, esci”.

Cos? favellando si aggirava per la stanza, quando all’improvviso levando la faccia vide un cavaliere di truce sembianza appoggiato su l’elsa della spada in atto di quiete minacciosa: lui allora, gli si avventando addosso, interrog?:

“Tu sei un traditore!…”

“Io sono Giovanni Bandini, e sgombrami il passo”.

“Tu di qui non uscirai, se non che morto”.

“Figlio di madre infelice tu sei, se pi? oltre ti ostini a impedirmi il cammino; ritirati, tu ne hai tempo ancora; io non voglio vederti; sappi che di rado ho replicati i miei colpi; vattene… e vivi”.

“Anzi io rimango, e muori; domani il carnefice ti scriver? l’epitafio su la cima della forca. Bandino, domani mander? la sfida e chieder? il campo a messere lo principe… badate di non ricusarla....”

“Tale e cos? insopportabile obbligo ho teco per avere salvata la mia vita, che in nessun altra maniera potrei sdebitamene, se non che togliendoti la tua. Il mio odio divent?, pel tuo benefizio, immortale. Apparecchiati a morire.... Addio”.

Capitolo Ventesimosecondo
Il duello

Pagolo Spinelli, soldato vecchio di moltissima esperienza, padrino di Ludovico, con certo suo piglio soldatesco, presentatosi davanti al principe di Orange, il quale, tostoch? vide entrare nella sua tenda cotesta nobile comitiva, si era alzato insieme co’ suoi baroni per complirla, profer? pacato le seguenti parole:

“Signor principe, sono qui il mio principale, messere Ludovico Martelli e il principale del capitano Giovanni di Vinci mio collega, messere Dante da Castiglione, i quali si apprestano al vostro cospetto con loro cavalli ed armi, in abito da gentiluomini, per entrare in campo chiuso e combattere messere Giovanni Bandino e messer Roberto Aldobrandi, che qui vedo presenti, loro avversari, col nome di Dio, di Nostra Donna e di San Giorgio il prode cavaliere, secondo il tempo e il luogo da voi medesimo assegnati con vostra patente del d? primo marzo 1529. Loro stanno allestiti a fare il debito loro e vi ricercano che vogliate dar loro parte del campo e sicuranza, dove confidano vincere con lo aiuto di Dio e col favore dei santi. E poich? hanno i miei principali concesso agli avversarii la scelta dell’arme, si protestano di questa capitolazione, la quale, dopo che sar? da me letta, depositer? nelle mani vostre per rimanervi come giudice ad ogni buon fine di ragione”.

Don Ferrante Gonzaga allora si trasse innanzi col conte Pier Maria Rossi di San Secondo, ambedue patrini del Bandini e dell’Aldobrandi, e favellando il primo tal dava risposta alle dichiarazioni del capitano Pagolo Spinelli:

“Signor principe, qui stanno i nostri principali messer Giovanni Bandini e messere Ruberto Aldobrandi, pronti a scendere in campo chiuso e sostenere con lo aiuto di Dio, di Nostra Donna e di san Giorgio, a tutta oltranza, finch? morte ne segua, la querela avuta dagli attori falsa e mendace; protestano accettare tutte e singole le cose contenute nella capitolazione avversaria; protestano voler combattere in camicia, con istocco, manopola scempia di ferro, cio? fino al polso, senza difesa in testa. Pi? presto fia, e meglio loro aggrada”.

…Gi? il sole declinando oltre il meriggio segnava l’ombra delle cose da ponente a levante quando Pagolo Spinello, recatosi in compagnia di Giovanni da Vinci alla tenda del principe, disse: “? l’ora”.

Ritiratosi l’araldo, e fattosi un solenne silenzio, si udiva lo squillo delle trombe; cessato che fu, comparvero fuori dai padiglioni i padrini seguiti dai loro principali, che a passi lenti e con sembianza severa s’incamminarono alla volta del principe; – seguivano dalla parte dei provocati, due araldi portanti un fascio di armi, imperciocch? spettasse loro il carico di provvedere stocchi e manopole. Venuti alla presenza del principe, i padrini posero un libro degli Evangeli sopra certo altare, e fattosi ognuno alcun poco da parte, lasciarono ai lati dell’altare Ludovico Martelli e Giovanni Bandini: sporse il primo bramoso la mano sinistra e, stringendo la destra al secondo e tenendogliela ferma sopra il libro, proruppe con terribile impeto:

“Uomo ch’io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi la mia querela contro a te buona e giusta, e tu combattere proditoriamente contro la patria.”

Il Bandino subito svincolando la mano e afferrando a sua posta con la manca la destra del Martelli, con voce cupa rispose:

“Uomo ch’io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi essere la tua querela contro di me temeraria, e possa il tuo sangue ricadere sopra la tua testa.”

Suonarono le trombe e fu fatto silenzio. I combattenti e i padrini si divisero in due partite. Dante, Bertino, Giovanni da Vinci e il conte Piermaria si pongono da un lato del campo, – Ludovico, Giovanni, don Ferrante e Iacopino dall’altro.

Allora tesero due corde che in due lizze uguali partirono il campo. I padrini con molta avvedutezza avvolsero e legarono i cordoni pendenti dall’elsa degli stocchi intorno al polso dei combattenti; quindi toltili pel braccio, li guidarono a mezzo il campo, dove distribuito con vantaggio eguale il vento e il sole, si ritirarono dicendo:

“Dio vi aiuti!”

Quando prima scesero in campo, Ludovico e il Bandino si gittarono gi? dalle spalle un mantello che gli riparava dal freddo, n? presero cura di metterli tanto in disparte che non potessero in seguito apportare loro impedimento.

Tremavano entrambi; se alcuno dei due avesse avuto animo pi? pacato, al primo colpo terminava la battaglia. I circostanti mandavano un mormorio simile a quello degli spettatori mal soddisfatti di uno spettacolo scenico: pareva che non osassero, eppure cotesta esitanza nasceva dall’odio soverchio che infiammava ambedue; avevano per trucidarsi mestiero che quella ardente passione si sfuocasse. Alloraquando divent? l’ira pacatamente omicida cominciarono le disperate percosse, e furono poste in pratica le arguzie tutte, gl’inganni e le orribili arti di tagliarsi le membra.

Volle sventura che, mentre dava il Martelli un passo indietro per ischifare una botta, il piede gli s’intricasse nel mantello, sicch? venne a perdere l’equilibrio del corpo, onde il Bandino sottentrando veloce lo giunse, comech? leggermente, con la punta della spada sopra la fronte tra ciglio e ciglio. Ludovico, toltosi d’impaccio, rispose di una stoccata tesa, la quale avrebbe da parte a parte trafitto il Bandino, dove questi non avesse piegato speditamente il corpo, non tanto bene per? che lo stocco nemico non gli forasse la carne sotto la poppa manca e via gli portasse una lunga brandella di pelle.

La ferita riportata da Ludovico sopra la fronte stillando sangue glien’empie gli occhi e gl’impedisce la vista: lui fruga per trovare un pannolino: non lo avendo o non lo trovando, tenta strappare una nappa di seta pendente ai cordoni avvolti intorno alla sua mano. Un solo istante china lo sguardo per vedere di bene afferrarla, e questo istante bast? al Bandino per sollevare la spada e alargliela sopra la testa.

Improvvido di consiglio, ma ben fermo da saltare indietro o da parte, il Martelli allunga la mano e stringe il taglio della spada nemica; il Bandino la tira a s? con forza e gliela recise fino all’osso; intanto il sangue negli occhi si condensa pi? copioso; lui comincia a scorgere mezzo gli oggetti, confusamente, circondati da iride sanguigna; gli scorre un sudore ghiacciato per tutto il corpo; sente intronarsi le orecchie di un zufolio fastidievole: due volte si vide il ferro del Bandino minacciante sul capo, e due altre volte, riportandone sempre profonde ferite, si difese con la mano sinistra; fermo di morire, ma bramoso di trascinare seco l’avversario nella tomba, punta la spada al petto e precipita l? dove gli sembra che stesse il Bandino: fu agevole a questo sfuggire quel cieco moto, pure cos? rapido gli venne addosso che gl’incise buona parte del braccio di larga, non gi? pericolosa, ferita. Il Martelli rimane scoperto e in qual parte siasi ritirato il suo avversario non vede; mentre brancolando si sforza incontrarlo, una fiera percossa gli spezza la testa e lo costringe a vacillare come uomo ebbro di vino; barcolla tre volte e quattro… sta… trema… e finalmente cade stampando della sua persona un’orma sanguinosa sopra la polvere.

“Muori!” – url? pieno di tremenda esultanza il Bandino, e curva la gamba sinistra, stesa la destra, ambe le mani levate, l’intero corpo acconsentendo all’urto, si atteggiava a fendere fino al mento la testa del caduto; ma non ancora aveva percorso la met? del giro, che un’altra idea di vendetta pi? truce gliela ferm?, n? gli parendo potersi ormai trattenere pi? oltre, chiuse le mani, e la spada cadde inoffensiva sul fianco del Martelli; lui poi si rimase con le braccia aperte nella guisa dell’uomo che manda una maledizione: infatti lui intendeva lasciare a quel prostrato la vita come una maledizione. Se muore, – lui pens?, – il suo tormento cessa; se vive, gli si rinnoveranno ogni giorno i dolori della morte; non che torgli il sentimento, avrebbe dovuto dargli parte del suo; se non sente, non soffre, ed lui stava per aiutarlo a riparare dietro al sepolcro! Oh! viva e racconti la sua bocca al mondo la disfatta patita, palesi il suo aspetto al mondo la propria vergogna, duri testimonio vivente che Dio non esiste, o, esistendo, non prende cura degli uomini; o se pure la prende, i suoi giudizi paiono oltraggi di cinico, non gi? consigli di suprema intelligenza.

“Vivi!” – replic? il Bandino; – “tu mi salvasti la vita, io te la rendo. Dio ha giudicato tra me e te: impara a rispettare chi val meglio di te: il cielo ti dichiara traditore… non sono loro infallibili i decreti del cielo?”

“Tu hai vinto la persona… e non la querela....”

“Ho vinto l’una nell’altra… arrenditi!”

“Dio mi ha abbandonato… una volta abbandon? il suo figliuolo… adesso abbandona la libert?… ma che pi? nulla di divino deve durare sopra la terra?”

“Arrenditi!”

“Mi arrendo al marchese del Guasto…”

“A me devi arrenderti… a me che tengo sotto i miei piedi la tua testa…”

“Oh! io mi arrendo…”

E che? Lui aveva giurato di voler morire, lui un’ora innanzi avrebbe tagliato la gola a chiunque si fosse osato proporgli di comporsi in pace col Bandino; e adesso si arrende cos?? Gran parte e la migliore di s? gli sfuggiva dal cuore insieme col sangue; dianzi le arterie gli vibravano piene di vita, adesso languidissime sembra appena che palpitino; il dolore gli tiene l’anima ingombrata per modo che non lascia luogo a pensiero di sorte. Quanti superbi disegni si porta via la vecchiezza! Quanti orgogliosi proponimenti all’appressarsi della morte impallidiscono! Gli anni penetrano nel sangue, come il mercurio, e lo irrigidiscono; la stupidit?, scacciati via l’odio e l’amore dal cuore umano, se ne compone quasi un sepolcro di pietra; l’uomo ? signore del momento presente; e tosto che conosce esserne signore, il momento ? passato; quello che segue rimane fuori della sua potest?.

Da ambedue le parti sconfitta: dall’un lato e dall’altro silenzio di trombe, mormorio di voci inquiete: i baroni tedeschi e spagnuoli irrompendo dentro lo spazio vietato ricordavano i colpi e le vicende del duello.

“? stato un nobile duello, quale avrebbero potuto combattere due cavalieri castigliani!” – esclamava uno Spagnuolo, cui uno smilzo Tedesco rispondeva:

“Certo degno di due baroni alemanni.”

La querela dichiararono non persa n? vinta, e dalle genti credule fu reputato segno che la fine della guerra avesse ad essere per ambedue le parti infelice; per la quale cosa avesse a giudicarsi la ragione stare di qua e di l?, o piuttosto non fosse ragione in nessuna.

Dante avendo con giuramento dichiarato ultima volont? del morto Aldobrando essere stata di avere sepoltura negli avelli de’ suoi maggiori, pot? trasportarsi seco il suo cadavere. Lo accomod? pertanto con amore infinito dentro ad una bara, lo fece con diligenza lavare, poi gli mise attorno l’armatura completa, sicch? pareva un guerriero il quale col sonno rifacesse le forze.

Nell’altra bara composero il Martelli.

Sul torre commiato dal principe, in segno di militare onoranza, ordin? si sparassero tutte le artiglierie; al quale frastuono la citt?, paurosa di sventura, rimase taciturna.

Capitolo Ventesimoquarto
Il sacco di Prato

Vico, Annalena e il padre di lei, affidati a poderosi cavalli, fuggivano traverso la moltitudine dei nemici; ogni speranza di salute ponevano nella velocit?. E a Vico, oltre quei due capi diletti, importava di porre in salvo cosa da cui forse pendeva la salute della Repubblica; la commessione dei Dieci al Ferruccio di tentare gli estremi rimedii alla tutela della patria: lui non aveva potuto consentire di separarsi dal fianco nei pericoli di quella fuga la sua amata Annalena; malgrado il disagio, la volle seduta in groppa al suo corsiero e con ambedue le braccia stretta intorno alla sua vita. In questo modo correvano e non proferivano parola.

Venuti al sommo di una altura, lanciano lo sguardo nella sottoposta vallata e vedono facelle andare in volta di su e di gi?, quasi lucciole vaganti alla campagna nelle notti di estate. Da prima Vico n’ebbe sospetto; si fermarono tutti; all’improvviso uscendo lui dalla meditazione, “Avanti”, – esclam?, – “non v’ha pericolo… indovino l’avventura”.

Davano forte degli sproni nei cavalli per lasciare il luogo maledetto; ma la fortuna parava loro davanti uno scontro. Le zampe del cavallo del vecchio Lucantonio percuotono sul petto di un giacente traverso il cammino; le ossa delle costole sotto il colpo sgretolarono, l’aria violentemente compressa si sviluppa dalle viscere e manda suono come di sospiro: fremerono tutti e scesero precipitosi di sella.

Con molta cura furono attorno al giacente, e lo ponendo a sedere, se residuo alcuno gli fosse rimasto di vita investigarono; male per? riuscivano nei tentativi loro, sepolti com’erano d’ogni intorno nel buio. Come volle fortuna, alcuni villani carichi di preda passavano quinci poco discosto portando lanterne, li chiamarono e li pregarono per Dio volessero essere cortesi di aiuto a cotesto infelice. E poich? l’uomo ? creatura strana, sebbene nel richiamare quel nemico alla vita corressero rischio di consumare poi a sanarlo parte e forse tutta la preda, accorsero i villani alla voce di carit? e lo sovvennero.

Appena per? eransi curvati, si rialzarono atterriti da un urlo spaventevole che aveva gittato il vecchio, e nel punto medesimo lo videro protendersi ferocemente, avventare le mani intorno al collo di quel corpo, quasi intendesse strangolarlo; per certo il furore gli accecava l’intelletto, dacch?, scorto il giacente alcun poco al chiarore del lume, conobbe essere da gran tempo fatto cadavere.

Il vecchio muta all’improvviso consiglio; toccato appena il giacente, si rileva da terra e, scopertosi il capo, gli occhi affissando al firmamento favella in suono ispirato: “Dove pass? la vendetta di Dio che cosa mai aggiungerebbe la mano dell’uomo? Io aspettai lunghi anni invano questa vendetta, e poich? non la vidi, ti rigettai dal mio seno, ora che hai posto l’uccisore del figlio sotto la zampa del cavallo del padre, io tremo tutto davanti alla tua tremenda giustizia, o Signore!”

Tacque e dopo un silenzio non breve riprese:

“Costui, non che i pi? scellerati tra gli uomini, vinse in nequizia le pi? feroci tra le belve; per? la sua iniquit? non toglie l’obbligo a voi di mostrarvi pietosi, dacch? lui ebbe nascendo il segno della salute: dategli pertanto sepoltura, ma non gli ponete memoria; il suo nome rammenterebbe delitti che per decoro della umana natura ? bene s’ignori che possano essere stati commessi: non gli dite preghiera, ella andrebbe dispersa; comunque infinita la misericordia di Dio, i suoi misfatti la superano. Patria di quell’anima era l’inferno”.

Il vecchio si allontan?; abbandonate le redini, si lasciava in balia del cavallo; avvertito di badare alla strada, non pareva intendesse; domandato a grande istanza pi? volte chi fosse colui del quale gli era occorso il cadavere e per quali casi a lui noto, non d? risposta: molti argomenti adoperati e tutti riesciti a vuoto, Annalena e Vico non cercano rimuoverlo dal suo pertinace silenzio.

“Significate al signor commissario che Vico Machiavelli giunto or ora da Firenze ha da consegnarli lettere degli magnifici signori Dieci di libert? e guerra”, – diceva Vico, smontato in Empoli al quartiere del Ferruccio, alla lancia spezzata che v’era posta di guardia.

“Non si pu?. Il commissario ha comandato che per cosa al mondo non si turbasse prima dell’Ave maria del giorno”.

“Andate tuttavia; e se dorme, svegliatelo”.

“Ferruccio non dorme: guardate quella grand’ombra sopra l’opposta muraglia, ? il signor commissario Ferruccio che passeggia su nella sala del primo piano”.

“Dunque avvisatelo”.

“Non si pu?; l’ordine non lo concede”.

“Almeno portategli o fategli portare questo piego”.

“Non si pu?; l’ordine non lo concede”.

“Il diavolo riposi le tua ossa”, mormora tra i denti Ludovico, e subito dopo riprese:

“Ebbene, tostoch? giunge l’Ave maria recategli questi fogli: se mi vorr?, ditegli che sono al quartiere; se mal ne avviene, il mio debito ? compito.”

E quinci si partiva sdegnoso; ma appena fu in lui un poco queto quel primo impeto d’ira, ripensando come il Ferruccio, avendo tolto l’arduo incarico di ripristinare l’onore della milizia italiana, doveva mostrarsi zelantissimo della disciplina, e il danno poco ed incerto che poteva derivare dal soverchio rigore non era da paragonarsi a gran pezza al danno immenso e sicuro che sarebbe nato dalla troppa rilassatezza, – concluse, siccome gli avveniva il pi? delle volte, di dar torto a s?, ragione al Ferruccio.

Si ridusse ai quartieri – apre la porta rimasta socchiusa, penetra nella stanza e vede Annalena e il padre di lei seduti davanti al focolare e cos? sprofondati nelle proprie meditazioni che non si accorsero della sua presenza, presa pertanto una scranna, lui si pose dall’altro lato del focolare di faccia a Lena.

Lucantonio all’improvviso, senza muovere ad atto alcuno le membra, senza quasi agitare le labbra, come se la voce partisse da precordii di pietra, in suono roco parl?:

“Annalena…, voi cesserete d’ora in poi di chiamarmi padre… Perch?… Perch? voi non siete mia… figlia…”

Pass? forse mezza ora di tempo, a capo della quale Lucantonio, ma questa volta con voce tremula, che l’umanit? tornava a soperchiare sul cuore del vecchio, riprende:

“E mi era cos? dolce sentirmi chiamar padre…! e da te, Lena! ed ora mi chiamerai Lucantonio senz’altro, Perch? non mi sei figlia”.

La passione gitt? gli argini; scoppi? da’ suoi occhi irrefrenato il pianto; strinse con impeto convulso tra le sue braccia Annalena, ed Annalena lui: pareva ambedue s’ingegnassero mantenere a forza di amore quanto avesse potuto perdere per natura il vincolo che da tanti anni gli univa.

“Ahim?!” – riprese il vecchio ponendo una mano sopra la fronte alla fanciulla, “questo tuo capo innocente non seppe immaginare il male neppure all’insetto che ti pungeva, ed ora dovr? contenere il germe dell’odio ch’io vi semino dentro… Dio voglia che rimanga senza frutto! D’ora in poi, quando camminerai tra i campi nel bel mese di maggio, i fiori non avranno pi? profumi per te, non pi? canto gli uccelli, non pi? sorriso la natura: occuper? l’anima intera una tremenda contemplazione di misfatti; i tuoi sogni verginali cesseranno, atroci fantasmi ti sveglieranno nella notte, e tu stenderai paurosa la mano sul guanciale, Perch? nel sogno ti sar? apparso temperato di sangue: ascoltami, io ti racconto una storia funesta; tu la crederai appena, tanto ella ? truce; io la vidi con questi occhi, con questo cuore io la sentii, e forse non ti rendo con le parole la millesima parte del vero. E Lucantonio riprese: Quel uomo che avete veduto, or non ? guari, cadavere miserabile sotto le zampe del mio, era Naldo Monaldeschi, traditore e omicida dei tuoi genitori e della mia famiglia, Annalena. Tu nasci dei Tosinghi e sei di Prato; io nacqui in Casa di tuo padre; a lui per fortuna sarei stato famiglio, ma l’amore ammendando i torti della fortuna ci volle fratelli, imperciocch? mor? nascendo lui la madre sua, noi bevemmo la vita dal medesimo seno, e le nostre braccia s’intrecciarono da pargoli sopra un medesimo collo”.

Vico, Annalena e Lucantonio si strinsero in un solo abbracciamento e proruppero in grido doloroso. Annalena giunse le mani e alzandole al cielo diceva:

“O Signore, io sperava tu mi avessi conceduto la vista della mia genitrice”.

…I giovani stavano per consolare Lucantonio, quando furono trattenuti da un secondo colpo pi? fortemente bussato.

Capitolo Ventesimoquinto
Volterra

Era Francesco Ferruccio. Lui s’inoltr? con passi gravi, e in sembiante severo; ma quando vide la fanciulla atteggiata di dolore, quasi statuetta che un bel pensiero di artista abbia posto sul sepolcro di un primogenito o di sposa nuovamente divelta dalle braccia – forse dal cuore – dell’amato consorte quando dal volto di Vico e di Lucantonio conobbe l’angoscia esser passata col?, di severo divenne mesto ed appoggi? il gomito destro sul pomo dello spadone, sopra la mano la faccia. E dopo alcun tratto di tempo incominci?:

“Ludovico, io sono venuto a dirvi addio. Prima che nasca il sole, mi ? forza partire in servizio della Repubblica per impresa piena di pericolo e di gloria. I giorni dell’uomo sono uguali ai passi del viandante, – i giorni del soldato trovano appena paragone nei passi del cavallo che fugge”.

Ludovico alz? gli occhi attonito e rispose:

“Perch? rimango io?”

“Per ordine dei signori Dieci consegner?” la terra al nuovo commissario Andrea Giugni…”

Costui conobbi sempre studioso della licenza, la quale, finch? non trovi luogo a dimostrarsi nel suo brutto sembiante intera, assai sovente si scambia con la libert?, uomo di corrucci e di sangue, non di quell’animo fermo che i gravi casi della patria domandano, di costumi corrotto e superbo, ogni bene riposto nei grossolani diletti della vita. La impresa a cui mi prepongono i Dieci giover? assai alla salute di Firenze, Perch?, vincendola, come, da Dio sovvenuto, confido, ridurr? alla sua devozione una citt? ribelle, e il suo credito scaduto verr? a rinverdire; in ogni caso, scemer? forza all’esercito, Perch? Orange mander? gente a tentare di ricuperarla. Per? il danno non compenserebbe il vantaggio perdendo Empoli: finch? conserviamo questa terra, non sar? mai spacciata la patria; la campagna ci ? aperta fina a Pisa, comodissima ci sovviene la facilit? di provvedere gli assediati; insomma il Palladio di Firenze si conserva qui dentro. Or dunque voi comprendete di quanta importanza mi sia lasciarvi persona sicura che vigili attentissima tutti i casi che possono accadere alla giornata e me ne ragguagli con diligenza”.

“Ma”, – riprese esitando Ludovico, – “la promessa che voi faceste al padre mio moribondo mi suona diversa; o non prometteste voi ch’io vi sarei morto al fianco per la patria combattendo?”

“Vico, io non muto mai; ma dite: voi da quel tempo in poi nulla vi sentite mutato? Allo amore di patria non si mescol? per avventura un altro amore? Vostro malgrado, non si lev? nel cuor vostro un istinto di conservazione per la vostra vita dacch? un’altra vita vi preme molto pi? della vostra? ? santo il vostro affetto, ed io lo approvo; pure sarebbe stato meglio che vi avesse acceso in altra stagione. Ma i fati reggono gli eventi; io poi non domando mai cose superiori alla umana natura; male, penso, si lascia il fianco della sposa per affaticarsi quotidianamente al raggio del sole in battaglia”.

“Messere, l’uomo difender? per religione quel sepolcro, Perch? contiene le ossa de’ suoi congiunti e conterr? le sue; ma se vi aggiungi la difesa della sua sposa e dei figliuoli, allora il soldato ti parr? fulmine di Dio contro i nemici: io mi rammento avere udito raccontare dal padre di Vico come gli antichi Spartani non accettassero combattenti nella falange sacra dove non fossero innamorati…”

“E che vorreste fare, giovanetta?” – le domanda amorevolmente il Ferruccio.

“A lui”, – riprese Annalena additando Vico, – “quello che spetta a moglie d’uomo che combatte per la difesa della patria; a voi quanto incombe a figliuola di padre affettuosissimo: io per me abborro il sangue, e la guerra ? necessit? che deploro con tutta l’anima; apprester? bende e rimedi alle ferite mentre voi vi avventurate al pericolo di riceverle; vi veglier? infermi; vi temperer? con freschi pannilini l’ardore delle membra quando vi travaglier? la febbre; ricever? nel mio seno il colpo che vi sar? indirizzato… vivr? con voi, e per voi morir?”.

Il matrimonio di annalena e Vico fu celebrato nelle domestiche pareti, ch? prima del concilio di Trento molte formalit?, diventate in seguito sostanziali, si trascuravano; mancarono i riti solenni; non vi assist? la corona dei parenti e degli amici. Il Ferruccio, modesto com’era, and? lui stesso per il prete. Furono nozze dicevoli al soldato in procinto di perdere la vita, alla donna che corre pericolo di diventare vedova prima che sposa. La religione del cuore suppl? alle pompe religiose, l’amore immenso dei pochi alla proterva allegrezza dei molti convitati.

Compiti appena gli sponsali, Vico baci? in fronte la sua donna e tenne dietro al Ferruccio disposto a partire. Il Ferruccio, accompagnato dal nuovo commessario Andrea Giugni e dai capitani che lasciavano alla difesa di Empoli, Piero Orlandini cui lui stesso con fervidissime istanze aveva pi? volte raccomandato ai Dieci come prode non meno che prudente uomo di arme e della libert? sviscerato, Tinto da Battifolle, Bocchino Corso e il conte di Anghiari, percorre le file, esaminando se avessero trasgredito in nulla i comandamenti di lui. Affrettati i passi, Il Ferruccio giunse in Volterra il giorno stesso 26 aprile che si part? da Empoli, trascorsa appena la ventunesima ora: subitamente introduce i fanti per la porta del soccorso nella cittadella; fatti smontare i cavalleggeri e cavare le selle ai cavalli, per la medesima via gli mette dentro.

Ferruccio intanto, quasi il sole non gli avesse riarsa la faccia, il cammino stancate le membra, la fatica e la polvere assetato, taciturno si aggira per le mura della cittadella, specola i luoghi, esamina i muri, nota le archibusiere avverse, poi assente col capo ad una sua interna determinazione e, percotendo della palma aperta il parapetto, esclama: “Pu? farsi!”

…Cominciato l’assalto di Volterra: il Ferruccio con la sua mente pens? quell’assalto e con le sue mani lo vinse; preso da furore, cominci? da ferire quanti tra i suoi mostravano vilt?, e fatta una testa di cavalleggieri armati a piede, si caccia avanti e riesce a capo della Via Nuova. Allora presero a rompere i muri delle case e sforzarsi di entrare; la disperazione da un lato e la speranza presentissima di vincere dall’altro riaccendono la mischia; di qua e di l?, morti e ferite. Pur finalmente i muri furono rotti, i Ferrucciani si spandono nelle case. Allora comincia una guerra spicciolata su pei tetti, nelle cantine, di stanza in stanza, con molta strage dei soldati e dei cittadini di Volterra. I Ferrucciani, dalla dura resistenza inacerbiti, non serbano pi? modo, ed agli orrori gi? tanti aggiungono il fuoco, il quale apprendendosi agli antichi edifizii, come voglioso di primeggiare nella opera della distruzione, in breve ora riduce in cenere quaranta case: le avrebbe distrutte tutte, se all’improvviso squarciandosi il cielo con procella di saette e di tuoni non avesse mandato gi? un acquazzone, il quale spense il fuoco e le forze degli assalitori spossati dal cammino e da sei ore di affannoso combattimento.

Nel giorno 13 giugno gi? tre furono gli assalti: il primo con dodici compagnie, il secondo con diciotto, il terzo con venticinque, combatterono dall’alba fino alle 23 ore di sera, e dei nimici morironvi 400, altrettanti i feriti: ai nostri manc? la munizione di polvere. Il Ferruccio rimase ferito nel secondo, non gi? nel primo assalto: molti dicono di una sola ferita: il Varchi ne parla in plurale: nella lettera del 6 luglio scritta dai commissari di Volterra ai Dieci, oltre la percossa ricevuta alla batteria, si rammenta la cascata da cavallo: e il Diario dello Incontri riporta del pari di una mala ferita che si fece al ginocchio, per esserglisi abbattuto sotto il cavallo mentre con gran impeto si spingeva ad ammazzare un Volterrano che vide starsene scioperato invece di accorrere ai bastioni: alla quale si aggiunse la febbre: e si fe’ portare dove si combatteva per essere veduto dai soldati. Questo secondo assalto incominci? il 21 giugno, un’ora prima del giorno; dopo 500 cannonate che atterrarono in pi? parti le mura riparate con botti, materasse e terra, alle ore 20 salirono all’assalto: tre volte si spinsero su la breccia, e tre furono respinti cos? duramente che dopo quattro ore si dettero alla fuga lasciando sul campo 800 tra morti e feriti. Quando l’esercito imperiale si part? con tanta vergogna, i Ferrucciani gli corsero dietro menando rumore con teglie, padelle e corni, dicendogli villania. Fabrizio aveva tratto seco 500 fanti e 5000 cavalli: il marchese 4000 fanti: bagaglioni e marraioli non si contano.

Capitolo Ventesimonono
La battaglia della Gavinana

I Dieci, pressurati dal popolo, il quale, non trovando pi? sozzure e schifezze da cibare, urlava con l’urlo della fame, scrissero al Ferruccio che per amore di Dio si avacciasse; che se non poteva andare lui, spedisse ad ogni modo tutta quella gente preponendole Giovanbatista Corsini detto lo Sporcaccino, o quale altro gli paresse pi? idoneo; nel qual caso davano a colui che mandasse la medesima autorit?. Presentata questa lettera al Ferruccio, dopo averla letta e poi ripiegata, tenendola in mano, la prese da un lato co’ denti dicendo:

Andiamo a morire”.

Senz’altro indugio il Ferruccio si pose in via, lasciata Pisa il 1 agosto 1530 e movendo per la Valdinievole: chiesta e non ottenuta dai Pesciatini la vettovaglia, fatto mostra di prendere la via maestra e piana, prevalendosi dell’oscurit? della notte, tralascia l’agevole sentiero e si getta tra i monti che gli sorgono a mano dritta nelle vicinanze di Collodi. Diventando la notte pi? nera, ed essendo ormai pervenuto a Medicina, castello del contado lucchese, gli parve di qui rimanersi, tanto pi? che in questo luogo aveva dato ritrovo a certi capi di parte cancelliera, per propria prestanza e pi? per le molte parentele ed amicizie a sostenere le cose della Repubblica pericolante adattissimi.

“Voi non dite la verit?. Lasciate l’uomo arbitro di giudicare i casi secondo i quali deve o no mantenere la fede, ed lui vi prover? ch’ebbe sempre ragione. Rispondete, vi prego, messere commessario, alla mia domanda; che fareste voi?”

“Io! – manterrei la fede data e mi romperei il cuore”.

“Ed io serber? la fede, e, senza pure rivedere la faccia de’ miei in questa stessa notte, con le armi ed il danaro che mi trovo addosso, me ne vado in Ungheria per combattere contro il Turco e spendere la vita in favore della cristianit?”.

Il due di agosto riprese l’esercito fiorentino il sentiero per le aspre giogaie di quei monti, ed affrettando, quanto meglio poteva, il passo, arriv? a notte fitta in Calamecca, castello della montagna pistoiese, di fazione cancelliera. Ferruccio considerata la stanchezza de’ suoi e il bisogno di averli ben validi nello scontro, che aspettava imminente, dell’esercito nemico, ordin? nuova posa.

Percorsa l’alba del giorno tre di agosto, che fu festa di santo Stefano, l’esercito della Repubblica continua la via. L’avantiguardia fiorentina, scesa in fondo della valle, pieg? alla volta di San Marcello, l? dove anche ai giorni nostri occorre una cappella di pietra grigia dedicata alla Vergine, posta lungo la strada che da Pistoia conduce a Modena. I terrazzani non conobbero il pericolo prima che sel vedessero irreparabilmente caduto addosso; la nebbia fitta imped? loro pensassero ai ripari. Irruppe pertanto nel castello la piena dei nemici: ben s’ingegnarono chiudere le porte della Fornace e del Poggiuolo, ma non poterono; chiusero quella del Borgo, e a nulla valse, imperciocch? gli assalitori accatastandovi davanti copia di legna suscitassero tale un incendio di cui anche ai tempi presenti occorrono vestigi. Dopo quel caso mutarono nome alla porta, e di porta del Borgo lo chiamarono porta Arsa, che tuttavia le dura. Il Ferruccio, ignaro che sopra il suo capo si era commessa tanto nefanda tragedia, co’ principali dell’esercito si ferma nelle stanze terrene della casa del trucidato Mezzalancia.

Il cielo presago della sventura che stava per avvenire incup? maggiormente la sua faccia, di grigio divent? nero e parve assumere gramaglie pel prossimo lutto. La pioggia dirotta allaga d’improvviso la terra.

Per altra parte il principe di Orange, pervenuto il due agosto a Pistoia, vi si ferm? tutta la giornata attendendo ad ascoltare gli esploratori e spedire di ora in ora ordini e messi a Fabrizio Maramaldo e ad Alessandro Vitelli, affinch? si stringessero alle spalle del Ferruccio senza lasciargli campo a ritirarsi; la qual cosa gli sembr? avere molto bene conseguita quando gli fu riportato che il capitano Cuviero con gli Spagnuoli ribelli di Altopascio, chiesto ed ottenuto perdono, si era congiunto con lui, e che Nicol? Bracciolino con mille armati di parte panciatica lo sosteneva e guidava. A ora di vespro, il principe, salito in cima del campanile del duomo, domand? ai cittadini pistoiesi che lo circondavano gl’indicassero la strada da tenersi fra i monti; della qual cosa, secondo che i ricordi dei tempi ci fanno fede, fu pienamente istruito da Bastiano Brunozzi. Appressandosi la sera, dietro la scorta di Bastiano Chiti, uomo pratico del paese, si pose in via e camminando tutta la notte si condusse la mattina sotto i Lagoni, luogo quasi ugualmente distante da Gavinana e Pistoia, e si accamp? in certo piano tutto ingombro di castagni che torna sopra a San Momm?, ricoperto dal poggio che riguarda Pontepetri e le Panche, adattissimo alle insidie e tale da sorprendere senza essere scoperto il Ferruccio, quando si fosse inoltrato, per la strada ch’egli disegnava tenere. Mentre l’Orange, in questo luogo fermando l’esercito, attendeva a riconfortare gli spiriti, ecco arrivare affannoso da capo alle piante contaminato di fango un sacerdote; dalla paura turbato e dalla agonia della vendetta, trafelato di stanchezza, non trovava parole intiere; si aiutava col gesto n? giungeva a farsi intendere meglio; lo consigliarono a riprendere lena, lo ristorarono con vino generoso, sicch?, tornatogli l’animo, cominci? a dire: “Ferruccio, si trova a San Marcello; la terra ormai ? stata ridotta in cenere, i popoli sepolti nelle rovine… io, per la grazia di Dio appena salvo, ho veduto con questi miei occhi trucidata tutta la mia famiglia; a che tardate? Muovetevi, se volete sorprendere il nemico come dentro una fossa”. Di ci? tanto opportunamente avvertito l’Orange dispose muoversi, molto pi? che conobbe a prova il breve riposo dopo la notte perduta sgagliardire piuttosto che afforzare il corpo; per lo che, recatosi in mezzo all’esercito accompagnato dai principali capitani, sal? sopra un monticello e con lieto sembiante rivolto ai soldati disse loro: “Soldati, si avvicina il termine dei comuni nostri fastidi. Vinta questa battaglia, torneremo a casa onorati ed anche doviziosi. Il papa, come uomo che si fida poco di voi e meno di me, non vuol pagarci, se prima non vinciamo. Vinciamo dunque; se non per volere, mostriamoci eroi per necessit?. Della vittoria sarebbe piuttosto follia disperare che sperare baldanza. In ci? mi affida la prodezza vostra in tante venture provata, la dappocaggine dei Fiorentini…”

I soldati di Orange si spingessero innanzi e facessero ogni sforzo di entrare in Gavinana prima del Ferruccio. Affrettando il passo, i cavalleggeri imperiali si accostano a Gavinana e ricercano i terrazzani aprissero le porte a nome dell’imperatore e del papa.

I principali del castello, recatisi sul ballatoio di porta Piovana, rispondono alla intimazione: aprirebbero volentieri, purch? avessero fede che sarebbero lor salve le sostanze e le vite. I capitani dei cavalleggeri soggiungono; “Aprite tosto; di ci? vi malleviamo sotto parola del principe Filiberto di Orange capitano cesareo, che di poco tratto ci seguita.”

E i terrazzani da capo: “Di voi punto non ci fidiamo; aspettate che venga il principe, e quando lui proprio ci assicuri, vi apriremo le porte; n? l’esitanza nostra deve adontarvi, imperciocch? essendo Gavinana ab antiquo di parte cancelliera, e occorrendoci tra voi non pochi panciatici, crudelissimi nemici nostri, meno di voi sospettiamo che di loro”.

Tutte queste parole mettevano innanzi i Gavinanesi non per voglia che avessero di arrendersi, ma per dar tempo di arrivare al Ferruccio, a cui avevano mandato celerissimi messi, ed ora, per sempre pi? affrettarlo, si posero a suonare furiosamente le campane a martello. I messi di Gavinana incontrano il Ferruccio nella casa del Mezzalancia.

“Affrettate i passi, per Dio! messere lo commessario; Gavinana appena si tiene, tanto l’assalgono grossi i nemici d’intorno; ma per poco che tardiate, voi troverete un mucchio di rovine. Il principe d’Orange in persona comanda all’esercito”.

“Maledetta sia la paura che vi fa vedere dappertutto il principe di Orange come se fosse il trentadiavoli e la versiera! Vi pare che lui avrebbe voluto o potuto abbandonare il campo sotto Firenze?”

“Io vi giuro pel corpo di Cristo, messere Ferruccio, che Orange vi sta incontro; molti dei vostri lo hanno veduto”.

Allora il Ferruccio trasse un sospiro e tra i denti mormor?: “Ahi! traditore Malatesta!”

Uscito all’aperto, il Ferruccio di slancio salt? in sella al suo buon cavallo e, levatosi l’elmo di testa, all’esercito, che gli stava schierato davanti come in anfiteatro, rivolse queste nobilissime parole, conservateci da Bernardo Segni al quarto libro delle sue Storie:

“So per esperienza, soldati fortissimi, che le parole non aggiungono gagliardia nei cuori generosi, ma s? bene che quella virt? che vi ? dentro rinchiusa, allora si mostra pi? viva che l’occasione o la necessit? la costringe a far prova di s?. Siamo in termine dove l’una e l’altra cosa ci si apparecchia per fare al mondo pi? chiara e pi? bella la costanza e la fortezza degli animi nostri; l’occasione vedete bellissima e sopra ogni altra onoratissima che ci si mostra difendendo con giusto petto l’onore delle armi italiane e la libert? della nobilissima patria nostra, per farvi risplendere per tutti i secoli di chiara luce; la necessit? ci ? presente e davanti agli occhi, che ci fa certi che ritirandoci saremmo raggiunti dalla cavalleria nemica, e che stando fermi non avremmo luogo forte da poter difenderci n? vettovaglia da poter vivere, quando bene prima entrassimo in quelle mura. Restaci adunque solo una speranza, e questa ? la disperazione di ogni altro soccorso infuorch? di quello che dalla virt? delle vostre destre infino a questo giorno state invittissime e dal vostro animoso spirito procede. Questo ci far? in ogni modo vincere; n?, bench? siamo meno per numero, ci dobbiamo diffidare, per la speranza, oltre a quella della virt? vostra, maggiormente in Dio ottimo massimo; che, giustissimo e conoscitore del nostro buon fine, supplir? con la sua potenza dove mancasse la forza nostra”.

E ricopertosi il capo, con feroce sembianza brandita la spada, riprese:

“Soldati, non mi vogliate abbandonare in questo giorno”.

I cavalieri imperiali, sospettando ormai la malizia dei Gavinanesi e gi? vedendo apparire le insegne fiorentine, non si tennero pi? in freno, ma, trascorrendo a mano diritta lungo le mura di Gavinana, si fecero animosamente ad incontrare il nemico.

Nessuno vinceva, e si distruggevano tutti. Alcuni cavalieri fiorentini, o trasportati dall’estro della strage, o sia piuttosto, come crediamo, desiderosi col sacrificio delle proprie persone assicurare la salute della patria, scorgendo un calle su per la costa del monte, vi salirono a stento, e quando furono giunti a conveniente altezza, gridarono: “Viva la Repubblica!” – poi spinsero gi? alla dirotta i cavalli, cacciando loro nel ventre intieri gli sproni. Quando loro percossero i fianchi dei nemici, alcuni dei nostri rimbalzati dall’urto oltrepassarono volando sopra di loro e andarono capovolti ad incontrare la morte gi? nel dirupo; altri caddero infranti tra le zampe dei cavalli: nondimeno cos? irresistibile fu l’impeto che la schiera si ruppe, e con eccidio miserabile ben molti tennero dietro nel precipizio ai nostri che tanto nobilmente si erano sagrificati. Allora crebbe il cuore ai Forentini: i capitani sopra gli altri volevano essere, siccome maggiori nel comando, cos? primi nel pericolo; sorse stupenda una gara di affrontare la morte; incalzano i Ferrucciani, piegano gli Orangeschi; indi a poco i cavalli, trovando dietro a s? bastevole spazio, si volgono e si danno alla fuga.

“Vittoria! vittoria!” con immense strida gridavano i soldati del Ferruccio, respinti i nemici e dispersi per la campagna, rientrando nelle mura di Gavinana. I terrazzani dai balconi, dai tetti plaudivano battendo palma a palma e sventolando candidi pannilini. Le campane sonavano a gloria.

“Vittoria! vittoria!” rispondono i cavalleggeri fuori delle mura, i quali a posta loro, ributtati i cesarei, occupavano il piano delle Vergini. Dappertutto allegrezza. Il cielo stesso placato lasciava aperto tra le sue nuvole un adito al raggio del sole, l’ultimo che salutasse il gonfalone della Repubblica Fiorentina.

E il prode Ferruccio, palpitante, bagnato di sangue nemico e de’ suoi si appoggia all’asta della lancia sotto il magnifico castagno che sorgeva sopra la piazza della Gavinana. I suoi occhi stanno rivolti al firmamento porgendo col cuore grazie fervidissime a Dio; non lo poteva con le labbra, ch? lo impediva l’affanno.

…La battaglia si continua; il Ferruccio respinge dalla Gavinana il nemico, lo disperde per la campagna, e dubbioso sia per tornargli addosso da capo, non si ferma finch? vede persona davanti a s?; allora fece sosta, ed accorgendosi che la punta della stradiotta per lo spesso ferire erasi storta, si chin? e raccolse da terra uno spadone a due mani di quelli che usavano i lanzichenecchi; poi, ordinati i superstiti a chiocciola, s’incammina al castello in soccorso di quelli che vi aveva lasciato. Le torme dei cesarei intanto si erano chiuse dentro di lui e avevano invaso tutte le strade della Gavinana: i suoi ben tuttavia vi stavano dentro, ma diventati cadaveri. In quel momento il Ferruccio alz? la voce e chiam? a nome i suoi pi? valorosi compagni; nessuno gli risponde; la morte aveva loro resa inerte la lingua.

Ora, mentre la sua anima pensando al fato di tanti prodi sospira, due grosse bande di nemici, imbaldanziti dalla vittoria e disposti ad abusarne quanto pi? furono immeritevoli di conseguirla, con minacce barbariche gl’intimano da lontano la resa.

Giampagolo Orsino, ormai disperato, si accosta al Ferruccio e gli domanda:

“Signor commessario, vogliamo noi arrenderci?”

“No”, – gli risponde con forza il Ferruccio; e piegata secondo il suo costume la testa, si avventa primo contro i sorvegnenti imperiali.

Nicol? Strozzi, considerando come quel valoroso, pi? che a mezzo morto, potesse appena reggere la spada, non volle si esponesse a sicurissimo eccidio; onde presto si pose tra il nemico e lui, riparandogli col proprio corpo le ferite.

Ma il Ferruccio, brontolando, lo trasse in disparte e in ogni modo volle pel primo affrontare il nemico. Cessata la speranza di vincere, combattono per non morire invendicati. Gl’imperiali abborrenti di sostenere l’estreme ire di quei terribili uomini, si allargano e li bersagliano con gli archibusi da lontano. Ad ogni momento ne cadeva uno per non pi? rilevarsi, n? i superstiti pensano ad arrendersi. Anche la Toscana ebbe i suoi Trecento e Leonida.

“Il gonfalone di Firenze! Gli angeli scendono a difenderlo: viva la Repubblica!”

Questo grido mandarono il Ferruccio e i suoi compagni, allorch?, alzando all’improvviso lo sguardo, videro sventolare al balcone di un castelletto posto sopra certa eminenza accanto le mura di Gavinana la bandiera del comune.

E al balcone si affacci? Vico Machiavelli, che con la voce e col cenno chiamava i compagni a riparare in cotesto estremo propugnacolo. Non senza nuove perdite col? si condussero; stremati com’erano di forze e di sangue, quella breve erta parve loro infinita. Sbarrarono le porte, come meglio poterono si afforzarono e dai balconi, dalle feritoie, che anche in oggi si vedono, presero a bersagliare il nemico.

Gl’imperiali, sospinti dalle minacce dei capitani, che dietro loro incalzavano con la spada nuda, molte volte salirono all’assalto, e sempre sopraffatti dalla tempesta delle palle piegarono. Maramaldo, rimasto in Gavinana, sentendo riuscire i conati invano, spumava di rabbia, e all’ultimo mand? a dire che se in mezz’ora non superavano il castello, gli avrebbe appiccati quanti erano. Si accingono all’ultima prova; le palle vengono pi? rare; arrivati a mezza costa scemano ancora; a pi? del muro cessano affatto, stanno immobili alquanto di tempo paurosi di sorpresa, non offesi si rinfrancano, i pi? timidi saliscono a gara, insieme uniti si sforzano a rompere le imposte, a scalare i balconi.

I nostri non hanno pi? polvere, non palle, e dimentichi dei pericoli e dei propri dolori, contemplano l’agonia di un valoroso. Ferruccio giace sopra un letto di foglie castagnine; non ha parte di corpo illesa; invano tentarono arrestargli il sangue, prorompe dagli orli delle fasciature, distilla dai lini temprati. Genuflesso a destra, gli sorregge il capo Vico Machiavelli, il quale forte si abbranca il petto sotto la mammella sinistra per impedire anch’egli lo sgorgo del sangue da una ferita ricevuta in quella parte, e dalla manca simile cura gli rende Annalena, anch’ella genuflessa.

Ardono in terra alcune lampade, le quali quando il sole illumina il nostro emisfero partoriscono effetto sempre solenne nell’uomo, imperciocch? accennino la presenza della morte – o Dio.

La morte con la mano grave chiudeva gli occhi al Ferruccio, ma l’animoso, sforzandosi scoterne il peso, avventava la pupilla coruscante a modo di baleno verso il balcone. Allora il Ferruccio non contese pi? oltre la potenza della morte, lasci? abbassata la palpebra e sospir? con mestissimo accento:

“? caduto! ? caduto!”

All’improvviso le porte sfasciate si disfanno, irrompe il nemico nelle sale del castello. Di stanza propagato in istanza, ecco percuote le orecchie del nemico una cantilena di sacre preci, un singhiozzare sommesso; un suono di pianto, siccome avviene nelle case che sta per visitare la morte. Entrarono e videro l’agonia del campione della Repubblica, o piuttosto dell’ultimo fra i grandi Italiani.

Ci? dicendo mosse per aggiungere alle parole l’esempio e gi? stendeva le mani su quelle sacre membra, quando Vico Machiavelli saltando all’improvviso in piedi lo respinse lontano, poi levatasi la destra dalla ferita strinse la spada ottusa nel taglio, troncata nella punta, e l’alz? per percuoterlo. Ahim?! Il sangue spiccia a zampilli fuori della ferita, lui vacilla com’ebbro e, dopo alcuni vani conati per sostenersi, stramazza duramente per terra. Annalena gittando un urlo disperato abbandona il capo del Ferruccio e si protende smaniosa sul corpo del marito.

Dirimpetto alla chiesa della Gavinana sorge una casa, una volta Battistini, oggi appartenente ai Traversari. La porta principale essendo elevata assai dal terreno, vi si salisce mediante una scala a due branche che lasciano uno spazio di alquante braccia quadrate davanti la porta.

Qui sta Maramaldo volgendo di tratto in tratto lo sguardo verso la porta Apiciana per vedere e il Ferruccio giungesse. Finalmente l’empia voglia gli rimase soddisfatta; si apre la folla, e il Ferruccio, tratto a vituperio con ineffabile angoscia sopra i bastoni delle picche, si avvicina alla casa Battistini.

Maramaldo con subito alternare diventa in volto bianco e vermiglio. Glielo distesero ai piedi, e lui stette lungo tempo a guardarlo senza potere profferire parola, poi cominci? tra lo scherno e la rampogna:

“Infelice! Vedi a che ti ha ridotto il folle pensiero di resistere alle armi di sua maest? Carlo V imperatore e re, e del Beatissimo Padre? Vedi, sconsigliato, come in mala ora lasciavi il fondaco? Credevi forse che il combattere battaglia fosse cos? agevole che misurare panni? Stolto!

Tu hai senza scopo empito i sepolcri di tuoi concittadini. Tu, alla vanit? che ti rode compiacendo, hai sagrificato migliaia di uomini. Dio ti ha riprovato, Dio ti confonde ai miei piedi; io potrei calpestarti, e tu lo meriteresti; ma rispetto in te il segno del cristiano e ti risparmio. Il Signore nella sua misericordia ti concede spazio sufficiente di vita per riparare ai tuoi falli; adempi al comando dell’Eterno e chiedi pubblica perdonanza all’imperatore…”

E questi vedendoselo ormai venire addosso, lo guarda in volto e sorridendo gli dice:

“Tu tremi! Ecco… tu ammazzi un uomo morto”.

E il ferro dell’assassino penetr? fino al manico nell’intemerato petto del prode Ferruccio. La bandiera nemica serve di lenzuolo funerario al Ferruccio… Lui lo vede… esulta e spira l’anima immortale.

Epilogo

La donna fuggendo e il vecchio inseguendo scorrono in piano di Doccia, rivedono la fonte dei Gorghi, il rivo delle Catinelle, si accostano a Gavinana, piegando a destra lungo le mura, e finalmente ansanti si fermano nel bosco delle Vergini a pi? di un castagno. In verit? uno dei pi? belli che crescano in quel campo, dove ne vegetano dei bellissimi, e nel suo tronco, ad arte scortecciato, mostrava una croce.

Cadendovi davanti genuflessa, appoggiandovi le mani una sopra l’altra, e su le mani declinando la testa, stette la donna immobile, bianca e, dove il palpito del seno non l’avesse dimostrata viva, uguale in tutto a statua di marmo.

E il vecchio le veniva accanto piegando anch’egli i ginocchi e, come lei, le mani e il capo appoggiando al tronco del castagno, senza parlarle, senza consolarla, senza pure toccarla; i suoi dolori erano di quelli che per parole non si placano; soltanto piangeva.

Immemore dapprima di ogni cosa terrena, la derelitta per quel pianto incessante si sentiva a mano a mano, dai truci fantasmi della immaginazione chiamata agli affanni della vita; allora si accorgeva del vecchio, che le plorava a canto e le si abbandonava nelle braccia, con le sue guancie premeva le guancie di lui, e confondevano insieme l’alito, i sospiri, le lagrime. Quanta inenarrabile angoscia aveva accumulato il Signore sul capo di quelle due creature!

I montanari, indovinando la causa per cui loro non potevano abbandonare coteste rupi, li compassionavano, ed anzi anch’essi, miti sotto il flagello di Dio, con ossequio religioso li proseguivano. Allo approssimarsi del verno, pi? che altrove, diviene squallida la natura su i monti, il vento si agita inquieto gi? per le valli, lungo le forre, e il mormorio che nasce dalle foglie cadute menate in volta e diffondentesi per tanto spazio di paese, rassembra un lamento che mandino gli alberi e la terra nel vedersi rapire la bella veste di cui andarono superbi nelle migliori stagioni dell’anno.

Una sera dei primi giorni del verno, all’ora del crepuscolo, in quel momento in cui la luce e le tenebre si contendono il cielo, e l’anima umana vacilla tra le cure della vita e i pensieri della eternit?, in cotesto istante, che anche all’assassino viene involontaria una preghiera della infanzia su i labbri, e nel cuore un pensiero per la madre che lo am? tanto, in quell’ora di mestizia e di pace, Lucantonio si present? al metato[17] della casa nuova. Teneva in collo, sorreggendola col braccio destro, Annalena, che dalla pieghevolezza dei contorni sembrava addormentata, se non che la destra le pendeva inerte lungo il fianco, la manca dietro il dorso del vecchio, e questi si aiutava sorreggendosi forte al bastone, il capo aveva scoperto, i suoi capelli bianchissimi si disegnavano nella porpora del crepuscolo, gli avresti detti tinti nel sangue. Giunto in mezzo al metato, volgendosi ai montanari quivi raccolti, con ferma voce e non pertanto sinistra domand? se alcuno di loro per amore della Madonna e per i suoi danari avesse voluto accompagnarlo al piano delle Vergini con palo e zappa, onde assisterlo in un’opera pia.

“Per amore della Vergine e vostro senz’altro”, – risposero i montanari, – “noi vi accompagneremo”; e le loro donne, mogli e figlie, fosse piet?, fosse voglia curiosa, o l’una cosa e l’altra, vollero ad ogni patto seguitarli.

Procederono a due a due come in processione silenziosi; veniva ultimo il vecchio; lui non aveva permesso a nessuno di toccare Annalena; e s? che quel peso doveva gravarlo, e ad ogni passo che mutava, pareva accostarsi di un anno al sepolcro. Ad un tratto il vecchio proruppe nel cantico dei morti e supplic? al Signore Perch? nella sua immensa misericordia avesse compassione di lui. E gli altri vennero ad ogni verso rispondendogli, sebbene ignorassero chi e dove fosse il defunto.

Lucantonio gli fece fermare nel bosco delle Vergini, a pi? di un castagno, ordinando scavassero col? dove additava. Tolta alcun poco di terra, la vanga incontra stritolando ossa umane; il montanaro lascia l’arnese ficcato nella terra e rifugge inorridito.

“Continua l’opera, montanaro”, – con voce solenne riprende Lucantonio, – “tu non profani le ossa dei morti, io riunisco la moglie al marito, questa ch’io tengo su le braccia ? la sposa, lo sposo giace l? dentro, il sepolcro sia il talamo di ambedue. Ieri all’alba ella svenne e divent? fredda… io la esposi al sole… l’avviluppai in caldi pannilini… col mio fiato mi sono ingegnato riscaldarle le mani, ma ella si ? fatta sempre pi? fredda… l’ho chiamata co’ nomi pi? cari… Vieni, le ho detto, sebbene questo pellegrinaggio mi avvelenasse il sangue, vieni, andiamo a visitare la fossa di Vico. Non mi ha risposto… Io l’ho tenuta per morta: ella difatti ? morta…”

Il montanaro continua a scavare la fossa, e il vecchio soggiunge favellando ai circostanti:

“O madri! questa povera creatura non conobbe sua madre: o padri!… ella non ebbe le paterne carezze… La sua anima fu tesoro di amore… e per lungo tempo la sventura si appigliava ai lembi di questo e di quello, interrogando: Chi devo amare? Imperciocch? io l’era servo, e quando ella ebbe trovato un gentile garzone, prode e dabbene, Dio glielo ha tolto. Questi giovani appena si conobbero nella vita, ora staranno insieme una eternit?. Lode al Signore!”

I montanari mal sapendo se quella lode al Signore uscisse sincera dal labbro del vecchio, o in fondo a quel discorso sonasse accento di disperazione, scherno o rampogna, piansero, calarono il corpo di Annalena nella fossa – e le pregarono pace.

La notte divent? profonda, i montanari tolsero commiato; Lucantonio voleva pagarli, ma si ristette, Perch? le lacrime non si pagano. Il vecchio cortese chiam? un fanciullino che gli era stato sempre al fianco e, postogli nelle mani quanto si trovava a possedere di danaro, gli parl? sommesso: Quando tuo padre avr? fame, e tu dagli questo.

Rimasto solo, cos? al buio incise sul tronco del castagno il nome di Annalena sotto quello di Vico, poi si accomod? a sedere con le spalle appoggiate al tronco, le mani conserte e abbandonate nel grembo, le gambe tese, il capo chino sul seno.

Il montanaro a cui il figlioletto aveva dato il danaro del vecchio, cercandolo il giorno appresso, lo rinvenne seduto a pi? del castagno; lo reputando addormentato, aspett? gran tempo perch? si svegliasse, poi lo tent? per le braccia… Non si scosse, perch? era morto.

Raccontano che quel bosco si chiamasse prima della Vergine in onore della Madonna, ma dopo quel caso lo dicessero delle Vergini, in memoria ancora di Annalena quivi sepolta.

Ho cercato il castagno che protegge con le sue ombre il sepolcro di quei tre miseri, e non l’ho trovato; ma se, come assicurano, gli alberi crescono di diametro strato sovrapponendo a strato senza cancellare le incisioni del coperto, ? da sperarsi che, abbattendo talvolta qualche castagno del bosco delle Vergini, il bottaio che ne far? caratelli trovi quel tronco consacrato dalla sventura.

Vocabolario

A

achibuso = archibugio – àðêåáóçà

additare – óêàçûâàòü

adempire – âûïîëíÿòü

adontare – îñêîðáëÿòü, îáèæàòü

adoperare – óïîòðåáëÿòü, ïðèìåíÿòü

allorch? – êîãäà

alquanto – íåñêîëüêî, íåêîòîðûé, äîñòàòî÷íûé

ammansire – óêðîùàòü

ammolirsi – ñìÿã÷àòüñÿ, ðàññëàáëÿòüñÿ

ansante – çàäûõàþùèéñÿ, çàïûõàâøèéñÿ

appiccare – ïðèêðåïëÿòü, ïðèâåøèâàòü

araldo – ãåðîëüä, ãëàøàòàé

arcano – òàéíà

argine – ïëîòèíà, íàñûïü, ïðåãðàäà

assalto – øòóðì, íàïàäåíèå

assestare – ïðèâîäèòü â ïîðÿäîê, íàëàæèâàòü

assopimento – äðåìîòà

asta – øåñò, æåðäü, êîïüå

augelletto = augellino – ïòè÷êà

auspicio – ïðåäçíàìåíîâàíèå, ïîêðîâèòåëüñòâî, ïîæåëàíèå

avvezzare – ïðèâèâàòü ïðèâû÷êè, ïðèó÷àòü

avvilupparsi – çàâîðà÷èâàòüñÿ, êóòàòüñÿ

B

balenare – ñâåðêàòü, áëåñíóòü, ìåëüêíóòü

balestrare – ñòðåëÿòü èç àðáàëåòà / èç ñàìîñòðåëà

balia – âëàñòü, ãîñïîäñòâî, ïðîèçâîë

baluardo – îïëîò, çàùèòà, áàñòèîí

barcollare – êà÷àòüñÿ, øàòàòüñÿ

barella – íîñèëêè

becco – êëþâ

bersaglio – öåëü, ìèøåíü

bigoncia – êàäêà, ÷àí; a bigonce – âåäðàìè

branca – ëàïà, êîãîòü

brindello – ëîñêóò; brindelli – ëîõìîòüÿ

brontolare – âîð÷àòü, áîðìîòàòü, ãðîìûõàòü (î ãðîìå)

bufera – áóðÿ, øòîðì

C

cagione – ïðè÷èíà, ïîâîä

calzari – ñàíäàëè

cantico – ãèìí, ïåñíîïåíèå

caratello – âèííûé áî÷îíîê

castaldo – ìàæîðäîì, ôåðìåð

cesareo – êåñàðñêèé, ïðèäâîðíûé

chetamente – ñïîêîéíî, òèõî

chino – îïóùåííûé, ñêëîíåííûé

chioma – âîëîñû, ãðèâà

ciglione – íàñûïü, äàìáà, ãðåáåíü

conato – ïîïûòêà, óñèëèå

corrugarsi – ìîðùèòüñÿ

cospetto – ïðèñóòñòâèå

cremesino – ÿðêî-êðàñíûé, êàðìàçèííûé

crepuscolo – ñóìåðêè

creta – ãëèíà

cruccio – îãîð÷åíèå, ãîðå, çàáîòà

D

dacch? – ñ òåõ ïîð, ñ òîãî âðåìåíè êàê, êîãäà, òàê êàê

daga – òåñàê, ïàëàø

destarsi – ïðîñûïàòüñÿ, ïðîáóæäàòüñÿ, âîçíèêàòü

deturpare – îáåçîáðàæèâàòü, óðîäîâàòü

dimestichezza – äðóæåñêèå îòíîøåíèÿ, ôàìèëüÿðíîñòü, çíàíèÿ, îïûò

divampare – âîñïëàìåíÿòüñÿ, çàãîðàòüñÿ

dovizia – èçîáèëèå, áîãàòñòâî

E

ebbro – ïüÿíûé, îïüÿíåííûé

eccidio – ðåçíÿ, ìàññîâîå óáèéñòâî

emisfero – ïîëóøàðèå, ïîëóñôåðà

esultanza – ëèêîâàíèå, ðàäîñòü, âåñåëüå

F

fante – ïåõîòèíåö, ñîëäàò

fanteria – ïåõîòà

fauci – ãëîòêà, çåâ, ïàñòü

fausto – ñ÷àñòëèâûé, áëàãîïîëó÷íûé

favellare – ãîâîðèòü, ðàçãîâàðèâàòü

feritoia – îòâåðñòèå, ùåëü, áîéíèöà

fervido – ãîðÿ÷èé, ïûëêèé

fosco – òåìíûé, òóñêëûé, ìðà÷íûé

fossa = fosso – ÿìà, êàíàâà, îâðàã, ìîãèëà

frangia – áàõðîìà

germe – çàðîäûø, çà÷àòîê, ñåìÿ, îòïðûñê

ghermire – õâàòàòü, îòíèìàòü, âûðûâàòü

giglio – ëèëèÿ

giogaia – ãîðíàÿ öåïü, ãîðíûé õðåáåò

gonfaloniere – ãîíôàëîíüåð

gramaglie – òðàóðíîå îäåÿíèå

I

immemore – çàáûâ÷èâûé, çàáûâøèé

imperciocch? – èáî, òàê êàê, ïîòîìó ÷òî

impronta – îòïå÷àòîê, îòòèñê

ineffabile – íåâûðàçèìûé, íåîïèñóåìûé, íåïåðåäàâàåìûé

inenarrabile – íåîïèñóåìûé, íåâûðàçèìûé

in fuori – ñíàðóæè, âûïèðàþùèé, âûäàþùèéñÿ âïåðåä

ingiuria – îñêîðáëåíèå, îáèäà, âðåä, óùåðá

iniquo – íåçàêîííûé, íåñïðàâåäëèâûé, íåïðèÿòíûé

intemperie – íåïîãîäà, íåíàñòüå

intimare – òðåáîâàòü, ïðèêàçûâàòü, ïðåäïèñûâàòü

investitura – âñòóïëåíèå â èñïîëíåíèå îáÿçàííîñòåé, èíâåñòèòóðà

L

lanzichenecco – ëàíäñêíåõò

leggiadro – èçÿùíûé, ãðàöèîçíûé, î÷àðîâàòåëüíûé

levante – âîñõîäÿùèé

lizza – àðåíà, ñîñòÿçàíèå

M

magnanimit? – âåëèêîäóøèå, áëàãîðîäñòâî

malleviare – ãàðàíòèðîâàòü, (ïî)ðó÷àòüñÿ

manopola – ðóêîÿòêà, ðó÷êà

marra – öàïêà, òÿïêà, ìîòûãà

masserizia – óòâàðü, îáñòàíîâêà, áåðåæëèâîñòü

mazziere – áóëàâîíîñåö

messere – ìåññåð, ãîñïîäèí (îáðàùåíèå)

micidiale – ñìåðòåëüíûé, ãóáèòåëüíûé, âðåäíûé

modanature – êàðíèç, îáëîì

molestia – áåñïîêîéñòâî, íåóäîáñòâî

mormorio – øîðîõ, øåëåñò, æóð÷àíèå, ãîâîð

mugghio – øóì, ðîêîò (ìîðÿ), çàâûâàíèå (âåòðà)

N

nappa – êèñòü, êèñòî÷êà, çàìøà

nefando – ìåðçêèé, ãíóñíûé, ãàäêèé

O

oltraggio – îñêîðáëåíèå, ïîçîð, óùåðá

onde – îòêóäà, îò÷åãî, ÷òîáû, êîòîðûé

P

palmo – ïÿäü, ëàäîíü

parricida – îòöåóáèéöà, ïðåäàòåëü ðîäèíû

patimento – ñòðàäàíèå, ìó÷åíèå, âðåä

patirsi – óåçæàòü, óäàëÿòüñÿ; îòäàëÿòüñÿ

pennoncello – ôëàãøòîê, ðåÿ

piaga – ðàíà, ÿçâà, áåäñòâèå

porpora – ïóðïóð

procacciare – äîáûâàòü, äîñòàâàòü

procelloso – áóðíûé

procinto – ãîòîâíîñòü

prode – ñìåëûé, õðàáðûé, äîáëåñòíûé

profferire – ïðåïîäíîñèòü, äàðèòü

propugnacolo – óêðåïëåíèÿ, áàñòèîí, êðåïîñòü

R

rampogna – íàõëîáó÷êà, íàãîíÿé, âíóøåíèå

recare – ïðè÷èíÿòü, íàíîñèòü, äîñòàâëÿòü

reverenza – óâàæåíèå, ïî÷òåíèå; áëàãîãîâåíèå

ribaldo – ìîøåííèê

risurrezione – âîñêðåñåíèå, âîñêðåøåíèå, âîçðîæäåíèå

roco – õðèïëûé

S

sacerdozio – ñâÿùåíñòâî

santuario – ñâÿòèëèùå, õðàì

scalzo – áîñîé, ðàçóòûé

scarlatto – ÿðêî-êðàñíûé (öâåò)

scettro – ñêèïåòð, æåçë

scherno – íàñìåøêà, èçäåâàòåëüñòâî

schiamazzo – êðèê, øóì, ãàì

scongiuro – çàêëèíàíèå, ìîëüáà, òîðæåñòâåííàÿ êëÿòâà

scudiero – ùèòîíîñåö, îðóæåíîñåö

scure – òîïîð, ñåêèðà

sembianza – îáðàç, ïîäîáèå, ÷åðòû (ëèöà)

smilzo – òîíêèé, õóäîé, ñóõîïàðûé

soccombere – íå âûäåðæèâàòü, ïîääàâàòüñÿ, ïàäàòü ïîä òÿæåñòüþ

soccorrere – ïîìîãàòü, ïðèõîäèòü íà ïîìîùü

sollazzare – ðàçâëåêàòü, âåñåëèòü, çàáàâëÿòü

spacciare – ïðîäàâàòü, âûäàâàòü, ðàñïðîñòðàíÿòü

spilluzzicare – åñòü ìàëåíüêèìè êóñî÷êàìè, ïîêëåâàòü

spoglia – ïîêðîâ, îáîëî÷êà, êîæà

sponsali – ñâàäüáà

sprone – øïîðà

stanga – çàñîâ, æåðäü, øåñò

stendardo – çíàìÿ, øòàíäàðò

stirpe – ðîä, ïëåìÿ

straripare – âûõîäèòü èç áåðåãîâ, ðàçëèâàòüñÿ

sudario – ñàâàí, ïîêðûâàëî, ïëàòîê

suggello – çíàê, ñâèäåòåëüñòâî

supino – ëåæàùèé íà ñïèíå, ðàáñêèé

sviscerare – ïîòðîøèòü, âñïàðûâàòü æèâîò

T

tabernacolo – ÷àñîâåíêà, øàòåð

talamo – áðà÷íîå ëîæå

tarocco – îáìàí, íàäóâàòåëüñòâî

teglia – áîëüøàÿ ñêîâîðîäà, ïðîòèâåíü

tempio – õðàì, ñîáîð

tepido – òåïëûé, âÿëûé

trabacca – ïàëàòêà, øàëàø, áàðàê

trambusto – ñóìàòîõà, áåñïîðÿäîê, âîëíåíèå

trastullo – èãðóøêà, çàáàâà

treccone – ìåëêèé òîðãîâåö, ïðîäàâåö ôðóêòîâ

treggea – ëåäåíöû, äðàæå

truce – ñâèðåïûé, æåñòîêèé

trucidare – çâåðñêè óáèâàòü

turba – ñêîïëåíèå íàðîäà, ðàññòðîéñòâî, íàðóøåíèå

U

uliginoso – âëàæíûé

usbergo – ïàíöèðü, êîëü÷óãà, çàùèòà

V

varco – ïåðåâàë, ïðîõîä

veemente – ïûëêèé, ñòðåìèòåëüíûé

veglia – áäåíèå, áîäðñòâîâàíèå

verno – çèìà, õîëîä

versiera – âåäüìà, ÷åðòîâêà

vettovaglia – ïðîâèàíò, ïðîäîâîëüñòâèå

vieppi? – åùå áîëüøå

villania – ãðóáîñòü, õàìñòâî

viscere – ÷óâñòâî, ñåðäöå, ëîíî

vituperio – áåñ÷åñòüå, ïîçîð, áðàíü

vortice – âèõðü, âîäîâîðîò, çàâèõðåíèå

Ïðèìå÷àíèÿ

1

 ýëåêòðîííîé âåðñèè êíèãè óäàðíûå ãëàñíûå âûäåëåíû æèðíûì èëè æèðíûì êóðñèâîì (â ñëîâàðå) – ïðèì. âåðñòàëüùèêà

(îáðàòíî)

2

= cos? dicendo; favellare = dire.

(îáðàòíî)

3

giacere = stare (ëåæàòü)

(îáðàòíî)

4

prorompere = dire (âîñêëèêíóòü)

(îáðàòíî)

5

onde = affinch?

(îáðàòíî)

6

Jacopo Passavanti (1302–1357) – uno scrittore e architetto italiano

(îáðàòíî)

7

Luigi Alamanni (1495–1556) – un poeta, politico e agronomo italiano

(îáðàòíî)

8

essa – la stanza

(îáðàòíî)

9

vostra = Sua (ñòàðàÿ ôîðìà âåæëèâîñòè: âìåñòî Lei èñïîëüçóåòñÿ voi)

(îáðàòíî)

10

figliuoli = figli

(îáðàòíî)

11

essa – la camera

(îáðàòíî)

12

Filiberto di Ch?lons (1502–1530) – un condottiero francese, nonch? principe d’Orange e vicer? di Napoli dal 1528 al 3 agosto 1530

(îáðàòíî)

13

Benedetto Varchi (1503–1565) – un umanista, scrittore e storico italiano

(îáðàòíî)

14

cotesto = questo

(îáðàòíî)

15

meco = con me; teco = con te

(îáðàòíî)

16

Aurelio Agostino d’Ippona (354–430) – un filosofo, vescovo e teologo latino, autore delle Confessioni.

(îáðàòíî)

17

luogo dove i contadini seccano le castagne

(îáðàòíî)

Îãëàâëåíèå

  • Capitolo Primo Niccol? Machiavelli
  • Capitolo Terzo Il papa e l’imperatore
  • Capitolo Quarto La incoronazione
  • Capitolo Quinto Papa Clemente VII
  • Capitolo Sesto Lucrezia Mazzanti
  • Capitolo Ottavo Giovanni Bandino
  • Capitolo Nono Michelangelo Buonarroti
  • Capitolo Decimo Fra’ benedetto da Fojano
  • Capitolo Undecimo Il profeta Pieruccio
  • Capitolo Decimoterzo L’assalto notturno
  • Capitolo Decimoquarto Il Morticino degli Antinori
  • Capitolo Decimosesto La vendetta
  • Capitolo Decimottavo Amore
  • Capitolo Decimonono La sfida
  • Capitolo Ventesimosecondo Il duello
  • Capitolo Ventesimoquarto Il sacco di Prato
  • Capitolo Ventesimoquinto Volterra
  • Capitolo Ventesimonono La battaglia della Gavinana
  • Epilogo
  • Vocabolario

  • Íàø ñàéò ÿâëÿåòñÿ ïîìåùåíèåì áèáëèîòåêè. Íà îñíîâàíèè Ôåäåðàëüíîãî çàêîíà Ðîññèéñêîé ôåäåðàöèè "Îá àâòîðñêîì è ñìåæíûõ ïðàâàõ" (â ðåä. Ôåäåðàëüíûõ çàêîíîâ îò 19.07.1995 N 110-ÔÇ, îò 20.07.2004 N 72-ÔÇ) êîïèðîâàíèå, ñîõðàíåíèå íà æåñòêîì äèñêå èëè èíîé ñïîñîá ñîõðàíåíèÿ ïðîèçâåäåíèé ðàçìåùåííûõ íà äàííîé áèáëèîòåêå êàòåãîðè÷åñêè çàïðåøåí. Âñå ìàòåðèàëû ïðåäñòàâëåíû èñêëþ÷èòåëüíî â îçíàêîìèòåëüíûõ öåëÿõ.

    Copyright © ÷èòàòü êíèãè áåñïëàòíî